lunedì 29 dicembre 2014

Facebook e il miracolo delle famiglie Mulino Bianco

A volte per vedere come va la mia vita mi collego su Facebook.

La consolazione arriva istantanea: va tutto bene, guarda come sono felice!

Diciamolo, sono chiaramente Facebook-internet-comunicazione immediata-selfie dipendente.
Sono così dipendente che anche i miei bambini ormai, qualsiasi cosa facciano, se ci fa ridere, se ci piace, mi dicono subito: "Fai una foto?".

E subito finisce su Facebook.

Alcuni vedranno sicuramente qualche terribile anatema minacciare la mia famiglia per tanta esposizione mediatica, rischi mortali di bambini visti da tutti, case riconoscibili, luoghi rintracciabili. 

Altri si annoieranno a morte chiedendosi se non ho proprio nient'altro da fare che mostrare "Luca e Matteo che fanno colazione", "la mamma che mette la crema antirughe", "quel raggio di sole che sul ciuffetto fuoripostodiMatteorilucepropriocomeunraggiodisole"...

Altri ancora troveranno nauseante questa continua esposizione di amore, felicità e armonia.
(Magari un giretto di medicina dell'occhio in fondo me la dovrei far fare, così, anche solo per scaramanzia...)

Io invece la trovo terapeutica.

Come quando c'è una tempesta coniugale e Luca mi porta una foto di noi tutti insieme e mi dice: "Guarda come siamo felici qui!".

E ha proprio ragione.

Facebook è un po' come la vecchia scatola di latta in cui tenevamo le foto, le lettere di chi ci voleva bene, la carta di quel regalo speciale che ci aveva fatto tanto felici, un fiore secco di cui ricordiamo ancora il colore vivace e il profumo intenso di quando era pieno di vita.

Ma ha il vantaggio dei fermenti lattici: è vivo!

Una foto va online, subito arriva un Mi piace, un commento, una faccina felice.
Arriva dall'altro lato del mondo, da un cuore che batte con il mio anche se ad orari diversi.

È ovvio che sia irritante tanta felicità, che non sia reale. Ma è un modo per far durare più a lungo quel calduccio che abbiamo provato nel cuore ("Tristeza no ten fin, felicidade si..."), per riprovarlo ogni volta che torniamo online e che ancora quelle parole sono lì, come quel sorriso, il volo del mio bambino immortalato per sempre in un momento di estrema felicità.

Così ci si consola dal freddo dell'inverno e ci si protegge dal freddo nel cuore, quando si è lontani e non si possono vincere le distanze se non col teletrasporto nei profili di chi amiamo.


giovedì 3 aprile 2014

Latte nero

Elif Shafak aveva alcune miniature di troppo nel suo harem interiore, che le parlavano di come gestire, o non, la sua maternità e la sua vita.
Fra le tante credo che Miss Ego Ambizione sia proprio quella che mi è rimasta più antipatica: così negativa, così ansiogena.

Probabilmente la sviluppiamo tutte, prima o poi, una nostra Miss Ego.

La mia è un mostro.

Quando salta fuori è orripilante, con tentacoli orrendi e una testa da Medusa, occhi indemoniati che chiedono vendetta.
O almeno un po' di silenzio, un po' di riposo, un breve ma efficace respiro di sollievo.

E se questo non arriva, allora arriva Lei.
Grida.
Magari tira pure uno sculaccione.
Magari due.
Allontana i bambini.
Li spaventa.
Mi spaventa.

Tutto il lavoro, la cura, i gesti compiuti per creare un nido sicuro, caldo e aperto al mondo per i miei bambini, tutto svanisce.
Pochi secondi che possono distruggere giorni, mesi di amore incondizionato.

La mia Miss Ego è felice quando non dormo.
Sa che avrà la meglio.

Luca è l'unico che può vestirsi da coraggioso cavaliere impavido e affrontarla.
Mi dice di non urlare.
Mi abbraccia e sussurra "It's ok."

Il mostro se ne va, sconfitto, ritira i tentacoli e sparisce.
Il momento di riposo, il respiro di sollievo arrivano e mi riportano in me.

Fino a che il vaso non sarà nuovamente colmo.

Ma fino ad allora i miei piccoli e io ci rifugiamo nel nido, a farci le coccole e a osservare il mondo che scorre sotto di noi.

giovedì 27 marzo 2014

Ma tu, quanto bilingue sei?

Juan e io abbiamo sempre saputo che uno degli aspetti magici della nostra unione era che se avessimo avuto dei bambini avrebbero potuto imparare non una, non due, ma ben tre lingue così, solo per il fatto di essere figli nostri.
Ci sembrava naturale: io parlerò italiano, tu parlerai spagnolo e Houston insegnerà loro l'inglese.
Fatto.
Organizzato.
Perfetto.

Io, che sono un'avida lettrice, avevo letto molto, un po' qua e un po' là.
Sapevo cosa fare.
Parli tanto, offri materiali autentici, libri, cartoni animati, canzoncine, film, filastrocche e chi più ne ha più ne metta. Un'estate in Colombia, una in Italia per coltivare amichetti con cui parlare, affetti qui e affetti lì, tutti a stimolare e a comunicare con i nostri piccoli virgulti in crescita.
In italiano io, in spagnolo Juan, Houston in inglese.

Et voilà! I bimbi trilingui sono serviti, così, su un piatto d'argento, senza nemmeno Rosetta Stone.

Certo, non avevamo considerato che avremmo potuto avere gemelli.
Nemmeno avrei mai immaginato di avere due maschietti.
Insomma, famiglia trilingue + gemelli + maschietti= lo sfacelo.

Quando prima dell'anno Matteo faceva i suoi gorgheggi, mi beavo all'idea che presto i miei piccini avrebbero riempito le stanze delle loro chiacchere allegre.
Al primo "mamma" mi scioglievo già in un brodo di giuggiole.
Eppure il tempo passava, le bambine che incontravamo al parco già spettegolavano allegramente con frasi complete, e i miei prodi erano ancora lì a biascicare versi incomprensibili.
Mai stata meno felice di constatare la superiorità femminile...
Mi proponevo comunque di aspettare pazientemente i progressi linguistici, senza ansie da prestazione.

E lì è intervenuto Luca, con la sua mente creativa.
Anziché imparare parole universalmente riconosciute come appartenenti ad almeno una delle tre lingue parlate in famiglia (che noia...) ha cominciato a creare un linguaggio tutto suo, coerente al punto che a volte per farci capire usavamo noi i suoi termini, anziché esigere che si adattasse lui a noi.
Matteo chiaramente, affascinato com'era dall'estro del fratellino, ha abbandonato i suoi studi linguistici ufficiali per adeguarsi totalmente alle invenzioni di Luca.

E parliamo di quando i genitori all'asilo commentavano la mia frustrazione con frasi solidali tipo "Magari parlerebbero di più se parlassero solo inglese/ dicono gli studi che i bambini bilingui non hanno mai un ampio vocabolario" e chicche del genere...

Rosetta Stone si vendicava su di me per il boicottaggio fatto in passato.

Ora però uno dei due è un chiaccherone poliglotta, che comincia a parlare al risveglio e smette di inventare storie di draghi e castelli solo a palpebre chiuse la notte.
L'altro ancora fatica, preferisce l'inglese, più semplice e conciso.

Ma io so che i miei piccolini, con tanta pazienza, con tanti libri e con tanti amici con cui chiaccherare, stupiranno presto (e in ben tre lingue!) tutti gli scettici monolingui con crisi di superiorità.

venerdì 21 febbraio 2014

Hipster si diventa

Ieri dovevo andare al museo con i miei studenti per un progetto e ho detto ai bambini di sbrigarsi che mamma doveva arrivare prima a scuola.
Mi è stato chiaramente chiesto perché e sono cominciate le rimostranze: a me al museo non mi ci porti mai...
Ora, a parte l'amore di Luca per l'arte drammatica e le impersonazioni delle vittime più celebri, in realtà queste rimostranze mi sono piaciute parecchio.
Noi i bambini al museo ce li abbiamo sempre portati: nel marsupio, in braccio, per mano... La prima volta avevano forse due mesi.
Non solo al museo, ma a concerti, a vedere film all'aperto, a conferenze, in biblioteca.
Bambini hipster.
Questo volevamo.
Anche senza chiamarli cosi.

Ricordo che appena conosciuto Juan eravamo andati alla Menil Collection e in una piccola libreria di fronte al museo una bambina, di forse tre anni, piangeva e faceva i capricci.
Finche la mamma non è intervenuta: "Alright, alright, I'll take you to the museum!".
Queste sante parole hanno magicamente calmato la furia infantile, che con un sorriso ha preso la mano della mamma e si è diretta verso il suo personale Paese dei Balocchi la Menil Collection!
E io ho pensato che anche io avrei voluto avere una furia che si calmasse con la promessa non di una caramella, ma di una visita al museo.

E cosi me ne sono fatta due!

Houston offre varie opportunità, musei per bambini, delle scienze, d'arte, di tutte le forme e di tutti i colori.

E noi li visitiamo vieppiù frequentemente.
Diciamo che non abbiamo sempre avuto grande successo durante tutte le visite, ma quasi.

A volte chi sta di sorveglianza nei musei si preoccupa, ci segue, pronto a bloccare con uno scatto felino qualsiasi tentativo di Luca e Matteo di eventualmente osservare troppo da vicino, migliorare o comunque modificare le opere d'arte più o meno intenzionalmente.
Si sentivano più sereni quando ancora stavano nel marsupio, bloccati addosso a babbo e mamma...
Già quando gattonavano, li sentivano più minacciosi. Ora poi che camminano libero-rapidamente, scatenano il panico...

Ma l'ideale è stato l'estate scorsa, quando nel parco della mia città, i Giardini pubblici di Sassari, hanno organizzato delle presentazioni di libri all'aperto con contiguo laboratorio artistico per bambini: il babbo e io finalmente ad ascoltare qualcosa che non avesse a che fare con la scuola o con i bambini, e loro felici a colorare, ascoltare storie e correre a piedi nudi sull'erba. Ogni tanto ci facevano una visita, e poi di nuovo al laboratorio.

E poi, sempre nello stesso posto, di notte, cinema all'aperto. Ci portavamo dietro un picnic e via!
La serata era organizzata!

Luca e Matteo sono i miei amici con cui posso uscire, scoprire, imparare. Voglio che per loro siano un piacere sia l'apprendimento, sia la condivisione delle scoperte con noi, anche se siamo grandi, anche se quando saranno giovani adulti noi saremo anziani.

Non so se crescendo ameranno ancora i musei, le biblioteche, l'arte, la musica, ma sicuramente noi stiamo cercando di fare quello che possiamo perché almeno conoscano e possano scegliere poi quello che preferiscono.

martedì 4 febbraio 2014

Niente nuove - Niente nuove

Qualcuno da poco mi ha detto che il silenzio è sottovalutato.
Oggi non ho proprio niente da dire.
Rivalutiamolo.

lunedì 3 febbraio 2014

Tanti auguri a teeeeeee, tanti auguri anche a teeee...

Presto sarà il compleanno dei miei bambini.
Il momento è un po' critico già da un anno.
Fino ai tre anni ci sembrava normale festeggiarlo con i NOSTRI amici, con o senza bambini.
Dall'anno scorso però Luca e Matteo hanno cominciato ad avere bimbi come loro, nanetti come loro, che li salutano con un abbraccio, con cui cercano vermi (o con cui si mettono lo smalto).
Insomma, i miei bebè sono grandi.
E visto che sono anche molto ospitali, chiedono se possiamo invitare i loro amici a casa nostra.

Grazie alla cara Sig.ra Montessori, ma non solo, i miei gemelli sono in due classi diverse, sia a scuola che al nido doposcuola.
Non discutiamo più se sia utile o no alla loro crescita, abbiamo superato la fase del dubbio educativo.

Ma alle nostre economie familiari, chi ci pensa???

23 bambini in classe di Luca a scuola.
23 bambini in classe di Matteo a scuola.
13 bambini con Luca al nido.
13 bambini con Matteo al nido.

Tra amichetti e compagnetti, alla festa ci saranno più invitati che al mio matrimonio.
E allora?
Non se ne fa niente e gli faccio credere che il loro compleanno sarà sempre una festa fra amici di mamma e papà?
Ma come fanno le altre mamme?
Magari non hanno gemelli, ma in molte famiglie qui i figli sono più di uno...
Si sceglie chi invitare e chi no?
Con Luca si può fare, parla, racconta cosa succede a scuola, chi è suo amico e chi no, con chi litiga e chi vuole portare a casa.

Matteo no.
Al nido incontro i suoi amici, che giocano con lui e lo salutano, incontro le mamme che mi dicono che i loro figli parlano sempre dei miei.
Ma a chi vuole bene Matteo io non lo so.

Dunque la decisione è presa: si invitano tutti!

Tanto a paninetti, torte, succhi e patatine li riempiamo quei pancini!
(Fortunatamente ancora non sono adolescenti)

Ma come, dove, quando?

Quando è facile: il giorno dopo il loro compleanno è sabato, scelta scontata.
Di mattina, così magari non ci roviniamo la giornata e facciamo pure il riposino dopo la festa.

Dove è una tragedia.
In tutti i vari locali ginnasto-ludico-scientifico-clowinistico-festaioli dove siamo stati per gli altri compleanni le cifre sono sempre simili: 200 sacchi circa fino a un 15-20 bambini, oltre quello una cifra tot a bambino in eccedenza. Mettiamo un 10 sacchi a bambino, per 50 bambini... Sfioriamo la catastrofe senza nemmeno pensare ai pancini...

Senza contare che poi alcuni pancini arrivano magari accompagnati da altri pancini...

A me i pancini vuoti proprio non piacciono.

E poi diciamolo, la festa dura un'ora e mezza, due ore e ti cacciano per fare spazio a chi è in lista dopo di te. Mai sopportato che mi ricordassero che una festa era finita.
Anche perché io, Luca e Matteo arriviamo sempre in ritardo...

Houston offre di tutto e di più per i compleanni, ma sempre per numeri relativamente limitati di ospiti (numeri logici, razionali, tipo 20) e senza considerare l'elemento gemelli, che raddoppia tutto...

Non sto a citare l'elenco dei luoghi meravigliosi che accolgono e fanno divertire i rampolli che crescono, perché sono tanti e non ce n'è mai piaciuto nessuno.

Gli unici che veramente prima o poi considererò sono: lo zoo, perché ci puoi rimanere quanto ti pare, anche dopo che la tua sala non è più a tua disposizione, e perché i bambini possono stare con gli animali e conoscere chi se ne occupa; e anche il museo delle scienze, che organizza anche lì feste istruttive e divertenti, ma poi non caccia tutti allo scadere delle due ore o meno.

Tante volte però in questi anni ho visto nei parchi gruppi di persone riunite per compleanni e varie feste, con i tavoli da picnic colorati e i palloncini svolazzanti.
Niente limiti di orario, spazi aperti, giochi sicuri, in mezzo alla natura.
Niente tariffe esorbitanti (che c'è poco da fare ma sempre lì si torna: immigrata, non expat) e un budget per riempire i pancini, che quelli sì ci stanno a cuore.

E allora è deciso.

La festa si fa al parco, si invitano gli ospiti con Evite, che per l'appunto ci evita di dover buttar via tanta carta preziosa in bigliettini di inviti che vengono cestinati praticamente all'arrivo a casa, e si aspetta a preparare la merenda di sapere quanti ci risponderanno con un RSVP, per dirci se verranno. Questo ci consentirà di razionalizzare anche i ricordini (assolutamente obbligatori qui...) in base al numero di ospiti.

Per ora ha risposto solo una mamma.
Ha detto forse.

Non so... Forse non riusciremo a razionalizzare e collasseremo...

domenica 2 febbraio 2014

E se i maschietti vogliono lo smalto?

Ora potrei darmi un certo contegno, dire che mi dibatto fra i pro e i contro dell'offrire a maschietti e femminucce educazioni e stimoli diversi, alcuni da maschietti, altri da femminucce.

Io no, io sono una rivoluzionaria.
Non mi turbo.

Ai miei ometti offro bambole, costruzioni, trenini e utensili da cucina, trapani e aquiloni, biciclette e macchine fotografiche, libri con i draghi e con le principesse, bebè da cullare e anche pupazzi a forma di broccoli e carote.

E perché no? Lo smalto.

Spesso prendono in prestito i miei bracciali, gli orecchini, a volte le scarpe di papà.
Matteo ama mettersi i reggiseni attorno al collo.

Adorano quando mi metto lo smalto e oggi Luca era molto triste, perché la maestra all'asilo lo aveva messo alle bambine, ma non a lui.
Il papà di Jacob aveva dato il permesso, ma non c'era nessuno a dare il permesso per Luca.
E allora via, lo smalto la maestra gliel'ha messo anche se era già ora di andare a casa, visto che finalmente era arrivata la mamma a dire di sì!
Me li sono portati a casa tutti e due, Matteo compreso, con le unghie rosa scintillanti e le stelle negli occhi. Ebbri di femminilità. O di chissà cosa gli avrà suggerito quel colore, quell'odore pungente, con i brillantini illuminati dagli ultimi raggi del sole.

Eppure io non sono una rivoluzionaria. Non così tanto.

Quando l'estate scorsa dovevamo partire per la Sardegna, dura e pura, e Luca voleva portare nel suo zainetto il suo bebè, tutto vestito di rosa, io ho suggerito l'orsacchiotto.

Ho avuto paura che qualcuno lo prendesse in giro o facesse dei commenti su quel colore che non si dice, su un bambolotto e non un ben più virile orsacchiotto.
Non volevo dare spiegazioni a lui, non volevo dirgli che il rosa è per le femmine, almeno per alcune persone.
Non voglio essere io a spiegargli ora, che non ha nemmeno 4 anni, che il mondo è brutto e cattivo e ti giudica senza nemmeno conoscerti e ti etichetta.

E siccome allora ho avuto paura, ora no.
Ascolto.
E se vuole uscire con tante collane da sembrare un rapper da ghenga, perché no?
A Natale mi ha chiesto una Lalaloopsie. E via le Lalaloopsie!! Capelli rosa, blu, come vogliono loro.
E se le vorranno portare con loro il prossimo viaggio, sfodererò la sciabola e difenderò il diritto dei miei bambini a scoprire chi sono e cosa vogliono dalla vita.

Le etichette vengono prodotte a centinaia, dalle stesse persone a cui possiamo offrire motivi di scandalo, oppure no.

Non voglio farli vivere in un mondo protetto, neutro, in cui non possano essere individuati gusti maschili o femminili, per non correre rischi e non venir feriti.

Se qualcuno li ferirà, io sarò lì per loro.

Nel frattempo mi faccio preparare torte e caffè nella loro cucina, gioco con i loro draghi e costruisco torri altissime di castelli in cui vivono regine e principesse, da portare a spasso sui trenini o verso il tramonto a cavallo di un unicorno.

sabato 1 febbraio 2014

Il dolore non esiste. Viva l'America!

Mi sono tolta un dente, anzi due.
Proprio quelli del giudizio, mai arrivato.
Mi ero sentita molto orgogliosa quando erano spuntati.
Come una premonizione che qualcosa sarebbe cambiato.
Sarebbe arrivato il G-I-U-D-I-Z-I-O.
Un po' come il giudizio universale, ma io con quei denti ne uscivo bene.
Quattro biglietti verso la maturità e il buon senno comune.

Si dà il caso che il senno comune crei vari problemi, cresca a volte orizzontalmente e spinga quei proletari degli altri denti in maniera tale da provocare dolore e consunzione.
Un po' una rivoluzione oligarchico-dentale senza rispetto per chicchessia.
La soluzione è sempre la stessa: liberarsi del problema alla radice.
Una rivoluzione.

In Italia ne avevo tolti due, con gran dolore e terrore.
Un film horror durato secoli in cui il dentista doveva trovare mille appoggi per far leva e tirar via il mostro che si teneva con tutte le sue forze a una gengiva ormai stremata.
E io pure.

In America, ah, l'America, me ne hanno tolti due senza nemmeno dire trullallà.
I nostri gringos sono contrari alla legalizzazione delle droghe?
Mannò, proprio per niente!
Vengono amministrate dai dentisti.
Pusher novelli ed espertissimi.

Io per togliere questi denti sono stata sottoposta a una flebo di non so bene cosa.
Solo so che quel tubino nella mano mi ha fatto sognare.
Il dentista spaccava, trapanava, tirava, probabilmente martellava, magari c'era pure un moto picco.
Il fatto è che io NON HO SENTITO NIENTE.
Anzi, no, sarebbe una bugia.
Io mi sono sentita FELICE!
Lui faceva, io sognavo, mi godevo quel momento di pace, di armonia con me stessa e con l'universo.

Ogni tanto sentivo qualche colpetto.

Ma cos'era qualche colpetto, se paragonato alla flebo della felicità, della bellezza sublime (perché io, con quegli aggeggi in bocca, la faccia contratta in una smorfia munchiana e un signore con gli occhiali che mi armeggiava sul giudizio, mi sentivo proprio bella)

Non sono riuscita a rattristarmi nemmeno quando ha finito.

Su una carrozza reale, sono stata accompagnata fino al mio cocchio, dove il mio autista designato, il caro marito, mi ha fatto salire (volando con lui in un valzer di fiori) e mi ha ricondotto a casa.

Ho passato la giornata nel mio paradiso color di rosa, senza giudizio, ma a che serviva, tanto?

Devo ammettere che in questo paese il dolore non te lo fanno provare.

Anche dopo aver avuto Luca e Matteo, già dopo il primo giorno spingevo la carrozzina e da loro ci andavo da sola, dopo quattro giorni salivo le scale come una fatina.
Solo un po' a rilento.
Certo, la prima volta che sono andata dai bambini senza carrozzina ancora me la ricordo... Ho passato il tempo, almeno dieci minuti, trascinandomi a premere il pulsante dell'ascensore e poi a raggiungere le porte che si aprivano... troppo lenta per raggiungerle prima che si chiudessero...
Ricordo anche quando eravamo in macchina, ogni pietruzza e ogni dislivello della strada di casa che mi tirava la ferita.
Ma dolore, quello vero, descritto con tanta dovizia di particolari da chi mi aveva preceduto nella scala riproduttiva in Italia, mai.

Non so cosa sia.

Flebo, anestesie, vicodin, ibuprofen... Non so, sembrano versi di una poesia, parti di un incantesimo da recitare con solennità, fiale magiche che per un secondo, un'ora, quel che è, ti portano in un altro mondo, più bello, più giusto.

venerdì 31 gennaio 2014

Quello che le mamme scrivono. Quello che le mamme insegnano.

“La maternità è una sofferenza, una gioia molto sofferta. Da un amante ci si può staccare, ma da un figlio non riesci”.


Quella pazza di Alda Merini.

E ancora.

GENESI
Vorrei un figlio da te che sia una spada
lucente, come un grido di alta grazia,
che sia pietra, che sia novello Adamo,
lievito del mio sangue e che risolva
più quietamente questa nostra sete.
Ah, se t'amo, lo grido ad ogni vento
gemmando fiori da ogni stanco ramo
e fiorita son tutta e d'ogni velo
vo scerpando il mio lutto
perché genesi sei della mia carne.
Ma il mio cuore, trafitto dall'amore
ha desiderio di mondarsi vivo.
E perciò dammi un figlio delicato,
un bellissimo, vergine viticcio
da allacciare al mio tronco, e tu, possente
olmo, tu padre ricco d'ogni forza pura
mieterai liete ombre alle mie luci.



La maternità è una pura follia. Creativa. Distruttrice. 
Fonte di vita per cui almeno un poco bisogna morire.

A volte più di un poco.

Ti deruba delle forze, della lucidità, del sonno, di te, di quello che eri prima di essere una madre. 

Muori per rinascere. 

A volte. 

La letteratura femminile pullula di esempi di maternità distruttiva, distruttrice, ma che diventa anche terreno fertile sul quale creare, sognare, da cui prendere nuove energie.

Queste sono le tre mamme che ho nel cuore stanotte

Una, Alda Merini, la più fortunata, che ha passato la vita a dibattersi fra la poesia e i manicomi, ma che la mamma l'ha fatta tanto bene, tanto in profondità, che le sue figlie le hanno dedicato un sito web, per renderla ancora più immortale, non solo nei loro cuori.

L'altra, Sylvia Plath, che l'ha potuta fare poco la mamma, ma che ha avuto nel periodo della maternità il periodo più creativo della sua vita, e che scrive su questo una poesia terribile. 

E bellissima.

Medusa

Off that landspit of stony mouth-plugs,
Eyes rolled by white sticks,
Ears cupping the sea's incoherences,
You house your unnerving head-God-ball,
Lens of mercies,

Your stooges
Plying their wild cells in my keel's shadow,
Pushing by like hearts,
Red stigmata at the very center,
Riding the rip tide to the nearest point of departure, 

Dragging their Jesus hair.
Did I escape, I wonder? 
My mind winds to you 
Old barnacled umbilicus, Atlantic cable, 
Keeping itself, it seems, in a state of miraculous repair. 

In any case, you are always there, 
Tremulous breath at the end of my line, 
Curve of water upleaping 
To my water rod, dazzling and grateful, 
Touching and sucking. 

I didn't call you. 
I didn't call you at all. 
Nevertheless, nevertheless 
You steamed to me over the sea, 
Fat and red, a placenta 

Paralysing the kicking lovers. 
Cobra light 
Squeezing the breath from blood bells
Of the fuscia. I could draw no breath, 
Dead and moneyless, 

Overexposed, like an X-ray. 
Who do you think you are? 
A Communion wafer? Bluberry Mary? 
I shall take no bite of your body, 
Bottle in which I live, 

Ghastly Vatican. 
I am sick to death of hot salt. 
Green as eunuchs, your wishes 
Hiss at my sins. 
Off, off, eely tentacle! 

There is nothing between us. 

E che ha anche scritto libri per bambini, per sconfiggere le paure, le sue.



L'altra mamma è la mia, che mi ha insegnato a piangere, a ridere, a essere libera e testarda. 

Ma che non sarà qui a giocare con i miei bambini.



giovedì 30 gennaio 2014

La pappa col pomodoro, da qui comincia la rivoluzione

Cito testualmente da http://www.antiwarsongs.org/

“Dovresti mettere la pappaaippomodòro su 'Canzoni contro la guerra'. Detto così, alla fiorentina, perché è inutile starci a girare sopra: la pappa al pomodoro (non “col” pomodoro!) si conosce solo a Firenze (una di quelle cose semplicissime che pochi, però, sanno fare a dovere). Mi ci è voluto un minuto scarso per ripensarci; me la sono ricantata, la “canzoncina” più famosa del “Giornalino di Gian Burrasca”, e mi son detto che dovevano proprio essere altri tempi, altri e lontani, quelli in cui in una canzone scritta per uno sceneggiato televisivo dedicato all' “infanzia” (ma fino a un certo punto...) si cantavano cose del tipo: ”La storia del passato / ormai ce lo ha insegnato / che un popolo affamato / fa la rivoluzion”. Ma pensa un po' te. Poi mi sono ricordato che lo sceneggiato in questione era stato diretto da Lina Wertmüller; e, allora tutto m'è apparso più chiaro, dato che la stessa Wertmüller è autrice anche del testo della canzone, su musica di Nino Rota (!!!). Lina Wertmüller e Nino Rota; gli stessi della Canzone arrabbiata. Stante questo, sulle CCG la “pappaaippomodòro” ci è finita per davvero; perché è una vera e propria canzone di lotta. Non stiamo a raccontarcela più di tanto; e penso che, se leggesse, anche Lina Wertmüller concorderebbe in pieno.


Lina Wertmüller non so, ma io sono d'accordo.

In tutto e per tutto.

I bambini devono crescere forti e sani e devono sapere che quello che mangiano, come tutto il resto d'altronde, non è solo un riempi-pancia, ma tutta una filosofia di vita. Il mondo viene usato per produrre cibo, e a seconda del tipo di cibo che chiediamo, o che semplicemente accettiamo dalla società, siamo complici o del benessere, o del malessere del mondo stesso. 

All'inizio e alla fine della catena alimentare ci siamo noi, con le nostre scelte e con i nostri vizi.

Insomma, io sono vegetariana, mio marito no.


E da sopita rivoluzionaria ESIGO che anche i miei bambini lo diventino.


Quindi, con una certa nonchalance ho subito comprato due libri, che vado a elencarvi:


Herb, the Vegetarian Dragon





e


That's Why We Don't Eat Animals




Il primo un delizioso libro sulla convivenza civile fra draghi carnivori e vegetariani e la fine delle razzie dei primi a favore di un'agricoltura biologica promossa dal nostro buon drago Herb, amico di uccellini, coniglietti, topolini e sostenitore di interculturalità e multirazzialità.
Il secondo, un po' più truce, sulle torture inflitte a intere famiglie di animali da carne, con la presentazione degli allevamenti-intensivi-lager e delle sevizie a intere famiglie di ovino-bovino-pollame, ovvero a tutta l'umanità animale.
Luca e Matteo non hanno avuto dubbi. 
A loro è piaciuto di più il secondo.
Decisamente rivoluzionari molto più avanti della mamma.

La rivoluzione in cucina per una mamma con gemelli ha significato tanta, ma tanta lettura e, fortunatamente, collaborazione da parte di amiche che avevano avuto bambini prima di lei.


Poche regole, ma sempre le stesse; anzi, una sola regola, una sola sfida: fare tutto in casa. 

Yogurt, purea di mele cotte, pappe di carote, zucchine, con patate, senza patate, purea di avocado, pesche, mango, pere, banane schiacciate...

Con due lavori e due bambini ci voleva solo una grande organizzazione. (O meglio, ci voleva solo questa)
La domenica si facevano yogurt e pappe di verdura e di mele cotte, che poi venivano l'uno messo in frigo, le altre congelate e conservate a cubetti per un due settimane.
La frutta fresca era l'unica cosa da preparare al momento.
Una vita splendida.
I miei piccoli vegetariani crescevano rigogliosi come i porri dell'orto di Herb.

Tanto rigogliosi che i cubetti dopo un po' non sono bastati più, sono diventati tazzine, presto tazzone e ci siamo ritrovati a cucinare di continuo, ma solo per loro... 

La Chicco ci ha aiutato con i suoi seggiolini a 360°, che ci permettevano fin dai sei mesi dei gemelli di stare insieme a tavola.
Sono cominciati i pasti comuni e le colazioni, i pranzi e le cene, tutti insieme appassionatamente.
Non abbiamo grandi regole in cucina, non mangiamo tutto biologico; ci piacerebbe, ma servirebbe un mutuo.

Quando possiamo, sosteniamo il biologico, ma più come rivoluzione part-time.
Mangiamo sano, ma ora se lo yogurt lo compriamo pronto, pur sentendomi io ancora in colpa, non è una tragedia.

Ci si barcamena, si fa quello che si può, si boicotta la Barilla (accidentialoro!!!) e si compra la pasta più cara. 


Si usa (cioè, io uso, Juan ride) la meravigliosa App Buycott, che ci dice leggendo il codice a barre col telefono se il prodotto che stiamo comprando ha fabbriche pericolose nei paesi in via di sviluppo, se sfrutta i lavoratori, se non ha firmato l'accordo con Tizio oppure con Caio per gli OGM, per Kyoto, per vattelapesca...

Si cerca di andare nel paradiso dei buoni e degli onesti, e di insegnare anche ai nostri bambini la giusta via.

E il motto è sempre lo stesso: Viva la pappa col pomodoro!!!

Per tutti.




E per i rivoluzionari che volessero anche imparare le parole, ecco il testo:

viva la pappa pappa

col po po po po po po
po mo do ro
viva la pappa pappa
ch'è un ca po po po po po 
po la vo ro
viva la pa pa pa pa pa 
col po po po mo dor

la storia del passato
ormai ce l'ha insegnato
che un popolo affamato
fa la rivoluzion
ragion per cui affamati
abbiamo combattuto
perciò buon appetito
facciamo colazion


viva la pappa pappa

col po po po po po po
po mo do ro
viva la pappa pappa
ch'è un ca po po po po po 
po la vo ro
viva la pa pa pa pa pa 
col po po po mo dor

la pancia che borbotta
a causa del complotto
è causa della lotta 
abbasso il direttor
la zuppa ormai è cotta
e noi cantiamo tutti
vogliamo che sia fatta
la pappa al pomodor


viva la pappa pappa

col po po po po po po
po mo do ro
viva la pappa pappa
ch'è un ca po po po po po 
po la vo ro
viva la pa pa pa pa pa 
col po po po mo dor
viva la pappa pappa
col po po po po po po
po mo do ro
viva la pappa pappa
ch'è un ca po po po po po 
po la vo ro
viva la pa pa pa pa pa 
col po po po mo dor
viva la pa pa pa pa pa
col po po po mo dor

mercoledì 29 gennaio 2014

Ahoy - Armati fino ai denti e sorridenti, ovvero l'attachment parenting, il co-sleeping e altre teorie da pirati

Ieri notte mentre Luca saliva le scale per raggiungermi e fare la nanna (sì, lo ammetto, ho ceduto da tempo al co-sleeping, sempre meglio del co-restiamo svegli tutta la notte per alzarci quando chiamano) lo sentivo cantare:
"Ora vado dalla mammaaaa, 
lalalà, 
mi aspettaaaaaa, 
lalalà, 
facciamo la nannaaaaa, 
lalalà, 
con la mia mammaaaaaaa"

Tutto felice Spider-Luca si avviava verso una notte di coccole e sonno.

Sonno per lui, perché io ho solo un vago ricordo di cosa sia.

Luca e Matteo hanno una deliziosa, fantasiosa, semplice cameretta da pirati, con alle pareti un vascello pirata, alcuni pappagalli pirati, dei tesori dei pirati, vari pirati armati fino ai denti e sorridenti e anche una mamma pirata su una scialuppa. Due cullette Ikea ormai nella fase lettino senza una sponda, copripiumoni attraenti con animali della fattoria o fantasie della città, una lampada a forma di Luna e una di stella, un baule con i pupazzi, due cani, due gatti, due orsacchiotti. Uno specchio per vedere quanto sono belli.

Una stanza perfetta insomma.

Ma la notte si trasforma in un campeggio.

Futon al centro per la mamma, materassino di Luca da una parte, materassino di Matteo dall'altra.
Tutti a dormire per terra. Mamma al centro. O papà. A volte si fanno i turni per resistere.
La situazione campeggio in fondo mi si addice.
Nel mezzo della notte però, ancora addormentato, Luca controlla l'adulto di turno:
"Abbracciami."
"Perché non mi guardi?"
"Stringimi"
"Un bacio"

Matteo è di poche parole. Grugnisce. Ti prende la faccia e te la gira dalla sua parte. Afferra il tuo braccio e se lo stringe al corpo tipo orsacchiotto.

A volte queste richieste di extra coccole ci fanno sciogliere in un brodo di giuggiole.
Altre volte vorremmo aggiungerci ai pirati, sfoderare una sciabola e lottare per la nostra libertà.

Insomma, sonno addio.

Alle sei suona la sveglia.
Nello specchio il riflesso di me, occhiaie, capelli arruffati tipo Mocio, espressione da condannata ai lavori forzati; sullo sfondo loro, due esseri zen, superiori, intoccati dalla notte, insonne solo per me.

Cosleeping/co-sleeping/dormire insieme
Chiamatelo come vi pare.
Le opinioni sono diverse.
E noi chiaramente, da umili genitori alle prime armi, anzi, alquanto disarmati, abbiamo dato retta a tutti.
Io ho comprato libri americani, francesi, italiani, spagnoli, ho consultato siti web di ogni emisfero e orientamento.
Diciamolo, non abbiamo mai avuto le idee chiare.
Prima che nascessero ci hanno regalato un co-sleeper, che io avevo messo sulla lista dei desideri di Amazon per il baby shower (meravigliosa abitudine americana, che Dio li benedica!!).
Eccolo qua:

Il nostro è celeste. Dall'immagine non si vede bene, ma uno dei lati si abbassa e arriva all'altezza del letto, così il bebè, o i bebè nel nostro caso, li tieni vicini vicini, ma puoi assopirti, senza paura di girarti e soffocarli sotto-di-te-contro-il-muro-con-il-piumone-con-il-cuscino-uno-contro-l-altro-sotto-la-pancia. Insomma, è una culletta anti incubi e pro attachment parenting, ovvero genitorialità dell'attaccamento. Nel senso che c'è una teoria che sostiene che i figli, per crescerli bene devi incollarteli addosso fino a che non si stacca l'Attac, verso i 13 anni, quando insomma sarebbe un po' equivoco metterteli ancora nel letto e sotto la camicetta a contatto con la pelle.

Dalla co-culletta è quindi iniziato il dubbio: sempre con noi dall'inizio o neonati responsabili con una loro indipendenza?

Prima di tutto ho pensato bene di dare retta a tutti quelli che dicevano che nel lettone dovevo starci solo io con il marito (mio, tranquilli, mio), che prima li portavo nella loro cameretta meglio era...
Quindi per i primi quattro mesi sono stati nella co-culla, prima in parallelo in larghezza e poi in lunghezza, dato che i miei neonati prematuri avevano deciso di battere tutti i record di crescita mondiale.
Poi sono stati con noi in due culle separate ma nella nostra stanza.
Ai nove mesi ho pensato fosse ora che migrassero verso la loro stanzetta, cullette e tutto.

Niente lamentele né proteste né dissidi sindacali.

Il popolo accettava la volontà della sovrana.

Poi, è arrivata la tata diurna che li metteva a fare la nanna un po' dove capitava, sul divano, sul tappetino attivo, sotto una marea di peluche, a pancia in su a pancia in giù.

Insomma, l'importante è che noi le avessimo detto di non farlo e lei lo faceva, diligente come una scolaretta con un suo piano diabolico.

Il popolo ha cominciato a ribellarsi.

Nel cuore della notte veniva richiesta a gran voce l'unità familiare.

Ma noi non cedevamo.
"Meglio voi in camera loro che loro nel lettone". Ci veniva consigliato.

Uno dei due finiva quindi a consolare il piccino di turno e passava la notte in bianco, alzandosi per raggiungerli ogni volta che i diritti sindacali dei nuovi nati lo imponevano.

Un anno così.

Il secondo anno la stanchezza si è fatta più pesante e com'è come non è abbiamo deciso che era meglio nel lettone che a fare la spola con la loro camera.

E intanto io leggevo, mi informavo, chiedevo.

La pediatra sconsigliava assolutamente di portarli nel lettone, a meno che, diceva, non vada bene per tutta la famiglia.

A questo proposito invito alla visione di almeno alcune pagine (no, anzi, compratelo proprio) di un libro assai saggio di auto-aiuto per genitori, di cui vi mostro un'immagine: The Guide to Baby Sleep Positions: Survival Tips for Co-Sleeping Parents.

Non so, noi di bambini ne avevamo due. Queste immagini ci sembravano opera di un dilettante.

Grande rispetto agli autori del libro, nonché del blog www.howtobeadad.com, nonché dell'altrettanto utile pagina Facebook.

Alcuni uomini meriterebbero un monumento.

La pediatra, dicevo, non era molto a favore del co-sleeping.

Noi, da genitori obbedienti e insonni, abbiamo dato retta.

Finché un giorno ho buttato il futon a terra e mi sono arresa.
Ma esattamente, com'è che dormire insieme ai miei pargoletti, cosa che tra l'altro avevo desiderato fin dal primo giorno, per potermi godere ogni attimo e ogni respiro di quei due esserini, dicevo com'è che dormire con loro può essere negativo?
Perché con loro non dormo, forse?
Ma tanto chi dorme, comunque? Basta un loro respiro più profondo, un colpo di tosse, e mi sveglio di soprassalto. E se invece mi sveglio che piangono disperati perché non sono con loro mi viene pure l'ansia. Fare la spola non potrebbe essere più spossante. Il metodo del pianto controllato la ricerca dice sia solo un modo per far venir su adulti insicuri e depressi.

Insomma, il futon per terra a me va benissimo, i loro materassini ai due lati mi consentono pure una certa libertà di movimento.
E quando invece sono paralizzata, fra molteplici tentacoli che mi stringono come un'anaconda prima di cenare con la sua vittima, che volete che vi dica?
Io ho sempre sognato di andare in Amazzonia.

martedì 28 gennaio 2014

Houston, abbiamo un problema: è inverno.

Qui a Houston ci sono alcune cose di qui si può essere sicuri.
L'estate dura circa sette-otto mesi e per il tasso di umidità sembra di vivere in una sauna finlandese.

C-O-S-T-A-N-T-E-M-E-N-T-E.

Un incubo.

L'inverno invece è più generoso.
Tanto generoso che vuole accontentare tutti.
Un giorno è inverno, uno primavera, uno estate, uno autunno.
Più generoso.
A volte le stagioni le vediamo tutte in un giorno solo.

Ci ho messo un po' a capire come funzionava.
Se l'ho capito...
Una collega mi ha svelato il segreto della felicità invernale a Houston: "Listen to the weatherman".
And so I do.
Ormai sono quasi più dipendente da The Weather Channel che da Facebook.
La sera, quando organizzo i vestiti dei bambini per il giorno dopo, li scelgo in base all'apposita App.
Per sicurezza controllo esattamente temperatura minima e massima, precipitazioni, tasso di umidità, pericolo burrasche invernali, ghiaccio, gelo, neve, pioggia, pericolo incendi...
The Weather Channel mi dice se accendere il riscaldamento, il ventilatore o l'aria condizionata.

Nell'armadio abbiamo sempre maglioni, magliettine, gonnelline e maglie felpate.
The Weatherman ci dirà cosa ci serve quel giorno.

La follia metereologica da origine a delle giornate di pura follia, con strade allagate e fiumi che dividono la città, lastre di ghiaccio che obbligano le scuole a chiudere per evitare incidenti. E il giorno dopo, o la sera stessa, via, tutti al parco a goderci il sole!

Everything is bigger in Texas!!



lunedì 27 gennaio 2014

La libertà e la fortuna

I miei tesori non hanno nemmeno 4 anni e nonostante negli USA di solito si vada alle elementari, al kinder, a 5 anni, loro hanno avuto la fortuna di entrare a soli 3 anni in una scuola Montessori, pubblica per fortuna (perché per l'appunto io non sono una expat e a me la scuola privata non me la paga nessuno)

La fortuna è soprattutto nostra, che dopo anni di asilo nido privato finalmente abbiamo potuto respirare e ridurre i costi dell'assistenza ai bambini di oltre due terzi, perché ora il personale del nido, le amatissime maestre dell'Avalon Academy, è incaricato solo di portarli a scuola e riprenderli finché o io o il papà andiamo a prenderli verso le 6. (Perché appunto non essendo expat il nido qui è privato e il cittadino se lo paga)

Da quando erano ancora grandi come due banane nel pancione della mamma, Juan e io guardavamo spesso la meravigliosa scuola del vicinato, che era proprio di passaggio nelle passeggiate verso i caffé locali il fine settimana. Ci piaceva tanto. Un bell'edificio, maestoso senza essere troppo solenne, severo quanto basta per essere credibile, con un bellissimo parco dove immaginavamo le nostre due banane che correvano felici sull'erba e si arrampicavano sugli alberi.

Il sogno Montessori.

Io del metodo Montessori avevo solo letto alcuni libri, ne sapevo dunque abbastanza poco. Mi attraeva però l'idea del bambino libero di operare scelte fin da piccolo, di manipolare la realtà e capire dalle palline e dai cubetti il vero significato dell'universo.
Era magnifico, quasi mistico.
Perché a me quelle sembravano proprio solo palline e cubetti.
Invece, erano l'UNIVERSO.
Libero.
Mi ha sempre preoccupato un po' che l'adulto nel sistema montessoriano facesse un po' la parte del Lupo cattivo di Cappuccetto Rosso, un po' la parte della Fata Turchina di Pinocchio.
Io non mi sentivo né l'uno né l'altro.
O tutti e due.
Ma soprattutto io mi sentivo il bambino.
E pure ora...

Ma non divaghiamo.

Insomma, quando è stato il momento di iscriverli, o meglio di fare la domanda di preselezione per diventare studenti Magnet, perché, chiaramente, questa scuola è la più vicina a casa nostra, ma per ironia delle cartine geografiche e delle zone del distretto noi non rientriamo nella popolazione che ci si può iscrivere di diritto.

ENTRARE A TUTTI I COSTI è stato il nostro motto.

Impavidi di fronte alla burocrazia che ci seppelliva sotto moduli incomprensibili, da consegnare non una, ma almeno tre volte, eravamo pronti a tutto.
Luca è stato il primo a essere accettato.
Nato sotto una buona stella, baciato dalla fortuna.
Per Matteo abbiamo dovuto aspettare il secondo round della lotteria.
E' un po' più come la sua mamma, il mio Matteo.
La stella lo evita, la fortuna lo sdegna.

Ma stavolta le energie congiunte di tutta la famiglia hanno cambiato il destino!
Hanno preso anche Matteo!!
Felicità, emozione, grande orgoglio di padri!!
Avevamo due studenti Magnet in casa!!

Maria Montessori dall'alto, avrebbe protetto i suoi connazionali in terra straniera e io potevo dormire sonni tranquilli, li lasciavo nelle sue mani.
E via! Una responsabilità di meno!

Prima di essere ufficialmente accettati, bisognava determinare se avrebbero fatto parte di una classe bilingue (inglese-spagnolo), ESL (dove nessuno di solito parla una lingua straniera comune) o monolingue, magari con supporto ESL.

Esame catastrofico.

Entrambi i miei adorati bambini hanno fatto sfoggio dell'italiano come unica lingua mai conosciuta, nonostante due anni di nido in inglese e il babbo che con loro ha sempre parlato in spagnolo.
Ammetto di essere una grande chiaccherona.
Ok, una radio accesa costantemente sul mondo di Luca e Matteo.
In tutti i libri di istruzioni su come crescere un figlio avevo letto che bisognava subissarli di informazioni.
E così ho fatto.
In italiano.
Ha funzionato.
Gli unici americani della famiglia hanno scelto di parlare italiano.
Grande orgoglio di mamma.

Dov'era il problema? In una classe bilingue avrebbero potuto imparare a comunicare in spagnolo, visto che come lingua passiva già ce l'avevano, grazie al papà, che però si accontentava delle loro risposte solo in italiano.
Allora ho insistito un po' e ci hanno rimandato a un paio di settimane dopo per un altro esame.
Peggio.
Non sono mai stata dotata di una gran pazienza, ma quando mi hanno proposto di metterli in una classe ESL, cioè insieme a bambini che parlavano arabo, cinese, e non una parola di una delle tre lingue a loro familiari, non mi è sembrata, diciamo, una buona idea.
Regressione comunicativa e poca socializzazione.
Dottoressa Montessori mi stupisco di Lei.

La Direttrice ci ha spiegato (o meglio, ha cambiato idea quando non mi ha visto collaborativa con le scelte della scuola) che sarebbero stati inseriti in una classe monolingue con un sostegno ESL.
Maria ci era venuta incontro.
Non avrebbero avuto un'educazione bilingue ufficiale, ma nemmeno li avrebbero ghettizzati.

Visto che c'eravamo, ho provato a chiedere se i bambini sarebbero potuti stare nella stessa classe, ho elencato i dati scientifici e le ricerche a sostegno della non divisione dei gemelli, il fortunato caso di una scuola dello stesso distretto con centinaia di meravigliosi studenti gemelli che collaboravano in armonia e ottenevano risultati strabilianti.
Nello stesso momento Luca e Matteo, come ninja impazziti, schizzavano dalla cattedra della Direttrice, alla finestra, sotto le sedie e sopra i divani.
"I don't think so" ha risposto lei.
Non ho eccepito.