venerdì 31 gennaio 2014

Quello che le mamme scrivono. Quello che le mamme insegnano.

“La maternità è una sofferenza, una gioia molto sofferta. Da un amante ci si può staccare, ma da un figlio non riesci”.


Quella pazza di Alda Merini.

E ancora.

GENESI
Vorrei un figlio da te che sia una spada
lucente, come un grido di alta grazia,
che sia pietra, che sia novello Adamo,
lievito del mio sangue e che risolva
più quietamente questa nostra sete.
Ah, se t'amo, lo grido ad ogni vento
gemmando fiori da ogni stanco ramo
e fiorita son tutta e d'ogni velo
vo scerpando il mio lutto
perché genesi sei della mia carne.
Ma il mio cuore, trafitto dall'amore
ha desiderio di mondarsi vivo.
E perciò dammi un figlio delicato,
un bellissimo, vergine viticcio
da allacciare al mio tronco, e tu, possente
olmo, tu padre ricco d'ogni forza pura
mieterai liete ombre alle mie luci.



La maternità è una pura follia. Creativa. Distruttrice. 
Fonte di vita per cui almeno un poco bisogna morire.

A volte più di un poco.

Ti deruba delle forze, della lucidità, del sonno, di te, di quello che eri prima di essere una madre. 

Muori per rinascere. 

A volte. 

La letteratura femminile pullula di esempi di maternità distruttiva, distruttrice, ma che diventa anche terreno fertile sul quale creare, sognare, da cui prendere nuove energie.

Queste sono le tre mamme che ho nel cuore stanotte

Una, Alda Merini, la più fortunata, che ha passato la vita a dibattersi fra la poesia e i manicomi, ma che la mamma l'ha fatta tanto bene, tanto in profondità, che le sue figlie le hanno dedicato un sito web, per renderla ancora più immortale, non solo nei loro cuori.

L'altra, Sylvia Plath, che l'ha potuta fare poco la mamma, ma che ha avuto nel periodo della maternità il periodo più creativo della sua vita, e che scrive su questo una poesia terribile. 

E bellissima.

Medusa

Off that landspit of stony mouth-plugs,
Eyes rolled by white sticks,
Ears cupping the sea's incoherences,
You house your unnerving head-God-ball,
Lens of mercies,

Your stooges
Plying their wild cells in my keel's shadow,
Pushing by like hearts,
Red stigmata at the very center,
Riding the rip tide to the nearest point of departure, 

Dragging their Jesus hair.
Did I escape, I wonder? 
My mind winds to you 
Old barnacled umbilicus, Atlantic cable, 
Keeping itself, it seems, in a state of miraculous repair. 

In any case, you are always there, 
Tremulous breath at the end of my line, 
Curve of water upleaping 
To my water rod, dazzling and grateful, 
Touching and sucking. 

I didn't call you. 
I didn't call you at all. 
Nevertheless, nevertheless 
You steamed to me over the sea, 
Fat and red, a placenta 

Paralysing the kicking lovers. 
Cobra light 
Squeezing the breath from blood bells
Of the fuscia. I could draw no breath, 
Dead and moneyless, 

Overexposed, like an X-ray. 
Who do you think you are? 
A Communion wafer? Bluberry Mary? 
I shall take no bite of your body, 
Bottle in which I live, 

Ghastly Vatican. 
I am sick to death of hot salt. 
Green as eunuchs, your wishes 
Hiss at my sins. 
Off, off, eely tentacle! 

There is nothing between us. 

E che ha anche scritto libri per bambini, per sconfiggere le paure, le sue.



L'altra mamma è la mia, che mi ha insegnato a piangere, a ridere, a essere libera e testarda. 

Ma che non sarà qui a giocare con i miei bambini.



giovedì 30 gennaio 2014

La pappa col pomodoro, da qui comincia la rivoluzione

Cito testualmente da http://www.antiwarsongs.org/

“Dovresti mettere la pappaaippomodòro su 'Canzoni contro la guerra'. Detto così, alla fiorentina, perché è inutile starci a girare sopra: la pappa al pomodoro (non “col” pomodoro!) si conosce solo a Firenze (una di quelle cose semplicissime che pochi, però, sanno fare a dovere). Mi ci è voluto un minuto scarso per ripensarci; me la sono ricantata, la “canzoncina” più famosa del “Giornalino di Gian Burrasca”, e mi son detto che dovevano proprio essere altri tempi, altri e lontani, quelli in cui in una canzone scritta per uno sceneggiato televisivo dedicato all' “infanzia” (ma fino a un certo punto...) si cantavano cose del tipo: ”La storia del passato / ormai ce lo ha insegnato / che un popolo affamato / fa la rivoluzion”. Ma pensa un po' te. Poi mi sono ricordato che lo sceneggiato in questione era stato diretto da Lina Wertmüller; e, allora tutto m'è apparso più chiaro, dato che la stessa Wertmüller è autrice anche del testo della canzone, su musica di Nino Rota (!!!). Lina Wertmüller e Nino Rota; gli stessi della Canzone arrabbiata. Stante questo, sulle CCG la “pappaaippomodòro” ci è finita per davvero; perché è una vera e propria canzone di lotta. Non stiamo a raccontarcela più di tanto; e penso che, se leggesse, anche Lina Wertmüller concorderebbe in pieno.


Lina Wertmüller non so, ma io sono d'accordo.

In tutto e per tutto.

I bambini devono crescere forti e sani e devono sapere che quello che mangiano, come tutto il resto d'altronde, non è solo un riempi-pancia, ma tutta una filosofia di vita. Il mondo viene usato per produrre cibo, e a seconda del tipo di cibo che chiediamo, o che semplicemente accettiamo dalla società, siamo complici o del benessere, o del malessere del mondo stesso. 

All'inizio e alla fine della catena alimentare ci siamo noi, con le nostre scelte e con i nostri vizi.

Insomma, io sono vegetariana, mio marito no.


E da sopita rivoluzionaria ESIGO che anche i miei bambini lo diventino.


Quindi, con una certa nonchalance ho subito comprato due libri, che vado a elencarvi:


Herb, the Vegetarian Dragon





e


That's Why We Don't Eat Animals




Il primo un delizioso libro sulla convivenza civile fra draghi carnivori e vegetariani e la fine delle razzie dei primi a favore di un'agricoltura biologica promossa dal nostro buon drago Herb, amico di uccellini, coniglietti, topolini e sostenitore di interculturalità e multirazzialità.
Il secondo, un po' più truce, sulle torture inflitte a intere famiglie di animali da carne, con la presentazione degli allevamenti-intensivi-lager e delle sevizie a intere famiglie di ovino-bovino-pollame, ovvero a tutta l'umanità animale.
Luca e Matteo non hanno avuto dubbi. 
A loro è piaciuto di più il secondo.
Decisamente rivoluzionari molto più avanti della mamma.

La rivoluzione in cucina per una mamma con gemelli ha significato tanta, ma tanta lettura e, fortunatamente, collaborazione da parte di amiche che avevano avuto bambini prima di lei.


Poche regole, ma sempre le stesse; anzi, una sola regola, una sola sfida: fare tutto in casa. 

Yogurt, purea di mele cotte, pappe di carote, zucchine, con patate, senza patate, purea di avocado, pesche, mango, pere, banane schiacciate...

Con due lavori e due bambini ci voleva solo una grande organizzazione. (O meglio, ci voleva solo questa)
La domenica si facevano yogurt e pappe di verdura e di mele cotte, che poi venivano l'uno messo in frigo, le altre congelate e conservate a cubetti per un due settimane.
La frutta fresca era l'unica cosa da preparare al momento.
Una vita splendida.
I miei piccoli vegetariani crescevano rigogliosi come i porri dell'orto di Herb.

Tanto rigogliosi che i cubetti dopo un po' non sono bastati più, sono diventati tazzine, presto tazzone e ci siamo ritrovati a cucinare di continuo, ma solo per loro... 

La Chicco ci ha aiutato con i suoi seggiolini a 360°, che ci permettevano fin dai sei mesi dei gemelli di stare insieme a tavola.
Sono cominciati i pasti comuni e le colazioni, i pranzi e le cene, tutti insieme appassionatamente.
Non abbiamo grandi regole in cucina, non mangiamo tutto biologico; ci piacerebbe, ma servirebbe un mutuo.

Quando possiamo, sosteniamo il biologico, ma più come rivoluzione part-time.
Mangiamo sano, ma ora se lo yogurt lo compriamo pronto, pur sentendomi io ancora in colpa, non è una tragedia.

Ci si barcamena, si fa quello che si può, si boicotta la Barilla (accidentialoro!!!) e si compra la pasta più cara. 


Si usa (cioè, io uso, Juan ride) la meravigliosa App Buycott, che ci dice leggendo il codice a barre col telefono se il prodotto che stiamo comprando ha fabbriche pericolose nei paesi in via di sviluppo, se sfrutta i lavoratori, se non ha firmato l'accordo con Tizio oppure con Caio per gli OGM, per Kyoto, per vattelapesca...

Si cerca di andare nel paradiso dei buoni e degli onesti, e di insegnare anche ai nostri bambini la giusta via.

E il motto è sempre lo stesso: Viva la pappa col pomodoro!!!

Per tutti.




E per i rivoluzionari che volessero anche imparare le parole, ecco il testo:

viva la pappa pappa

col po po po po po po
po mo do ro
viva la pappa pappa
ch'è un ca po po po po po 
po la vo ro
viva la pa pa pa pa pa 
col po po po mo dor

la storia del passato
ormai ce l'ha insegnato
che un popolo affamato
fa la rivoluzion
ragion per cui affamati
abbiamo combattuto
perciò buon appetito
facciamo colazion


viva la pappa pappa

col po po po po po po
po mo do ro
viva la pappa pappa
ch'è un ca po po po po po 
po la vo ro
viva la pa pa pa pa pa 
col po po po mo dor

la pancia che borbotta
a causa del complotto
è causa della lotta 
abbasso il direttor
la zuppa ormai è cotta
e noi cantiamo tutti
vogliamo che sia fatta
la pappa al pomodor


viva la pappa pappa

col po po po po po po
po mo do ro
viva la pappa pappa
ch'è un ca po po po po po 
po la vo ro
viva la pa pa pa pa pa 
col po po po mo dor
viva la pappa pappa
col po po po po po po
po mo do ro
viva la pappa pappa
ch'è un ca po po po po po 
po la vo ro
viva la pa pa pa pa pa 
col po po po mo dor
viva la pa pa pa pa pa
col po po po mo dor

mercoledì 29 gennaio 2014

Ahoy - Armati fino ai denti e sorridenti, ovvero l'attachment parenting, il co-sleeping e altre teorie da pirati

Ieri notte mentre Luca saliva le scale per raggiungermi e fare la nanna (sì, lo ammetto, ho ceduto da tempo al co-sleeping, sempre meglio del co-restiamo svegli tutta la notte per alzarci quando chiamano) lo sentivo cantare:
"Ora vado dalla mammaaaa, 
lalalà, 
mi aspettaaaaaa, 
lalalà, 
facciamo la nannaaaaa, 
lalalà, 
con la mia mammaaaaaaa"

Tutto felice Spider-Luca si avviava verso una notte di coccole e sonno.

Sonno per lui, perché io ho solo un vago ricordo di cosa sia.

Luca e Matteo hanno una deliziosa, fantasiosa, semplice cameretta da pirati, con alle pareti un vascello pirata, alcuni pappagalli pirati, dei tesori dei pirati, vari pirati armati fino ai denti e sorridenti e anche una mamma pirata su una scialuppa. Due cullette Ikea ormai nella fase lettino senza una sponda, copripiumoni attraenti con animali della fattoria o fantasie della città, una lampada a forma di Luna e una di stella, un baule con i pupazzi, due cani, due gatti, due orsacchiotti. Uno specchio per vedere quanto sono belli.

Una stanza perfetta insomma.

Ma la notte si trasforma in un campeggio.

Futon al centro per la mamma, materassino di Luca da una parte, materassino di Matteo dall'altra.
Tutti a dormire per terra. Mamma al centro. O papà. A volte si fanno i turni per resistere.
La situazione campeggio in fondo mi si addice.
Nel mezzo della notte però, ancora addormentato, Luca controlla l'adulto di turno:
"Abbracciami."
"Perché non mi guardi?"
"Stringimi"
"Un bacio"

Matteo è di poche parole. Grugnisce. Ti prende la faccia e te la gira dalla sua parte. Afferra il tuo braccio e se lo stringe al corpo tipo orsacchiotto.

A volte queste richieste di extra coccole ci fanno sciogliere in un brodo di giuggiole.
Altre volte vorremmo aggiungerci ai pirati, sfoderare una sciabola e lottare per la nostra libertà.

Insomma, sonno addio.

Alle sei suona la sveglia.
Nello specchio il riflesso di me, occhiaie, capelli arruffati tipo Mocio, espressione da condannata ai lavori forzati; sullo sfondo loro, due esseri zen, superiori, intoccati dalla notte, insonne solo per me.

Cosleeping/co-sleeping/dormire insieme
Chiamatelo come vi pare.
Le opinioni sono diverse.
E noi chiaramente, da umili genitori alle prime armi, anzi, alquanto disarmati, abbiamo dato retta a tutti.
Io ho comprato libri americani, francesi, italiani, spagnoli, ho consultato siti web di ogni emisfero e orientamento.
Diciamolo, non abbiamo mai avuto le idee chiare.
Prima che nascessero ci hanno regalato un co-sleeper, che io avevo messo sulla lista dei desideri di Amazon per il baby shower (meravigliosa abitudine americana, che Dio li benedica!!).
Eccolo qua:

Il nostro è celeste. Dall'immagine non si vede bene, ma uno dei lati si abbassa e arriva all'altezza del letto, così il bebè, o i bebè nel nostro caso, li tieni vicini vicini, ma puoi assopirti, senza paura di girarti e soffocarli sotto-di-te-contro-il-muro-con-il-piumone-con-il-cuscino-uno-contro-l-altro-sotto-la-pancia. Insomma, è una culletta anti incubi e pro attachment parenting, ovvero genitorialità dell'attaccamento. Nel senso che c'è una teoria che sostiene che i figli, per crescerli bene devi incollarteli addosso fino a che non si stacca l'Attac, verso i 13 anni, quando insomma sarebbe un po' equivoco metterteli ancora nel letto e sotto la camicetta a contatto con la pelle.

Dalla co-culletta è quindi iniziato il dubbio: sempre con noi dall'inizio o neonati responsabili con una loro indipendenza?

Prima di tutto ho pensato bene di dare retta a tutti quelli che dicevano che nel lettone dovevo starci solo io con il marito (mio, tranquilli, mio), che prima li portavo nella loro cameretta meglio era...
Quindi per i primi quattro mesi sono stati nella co-culla, prima in parallelo in larghezza e poi in lunghezza, dato che i miei neonati prematuri avevano deciso di battere tutti i record di crescita mondiale.
Poi sono stati con noi in due culle separate ma nella nostra stanza.
Ai nove mesi ho pensato fosse ora che migrassero verso la loro stanzetta, cullette e tutto.

Niente lamentele né proteste né dissidi sindacali.

Il popolo accettava la volontà della sovrana.

Poi, è arrivata la tata diurna che li metteva a fare la nanna un po' dove capitava, sul divano, sul tappetino attivo, sotto una marea di peluche, a pancia in su a pancia in giù.

Insomma, l'importante è che noi le avessimo detto di non farlo e lei lo faceva, diligente come una scolaretta con un suo piano diabolico.

Il popolo ha cominciato a ribellarsi.

Nel cuore della notte veniva richiesta a gran voce l'unità familiare.

Ma noi non cedevamo.
"Meglio voi in camera loro che loro nel lettone". Ci veniva consigliato.

Uno dei due finiva quindi a consolare il piccino di turno e passava la notte in bianco, alzandosi per raggiungerli ogni volta che i diritti sindacali dei nuovi nati lo imponevano.

Un anno così.

Il secondo anno la stanchezza si è fatta più pesante e com'è come non è abbiamo deciso che era meglio nel lettone che a fare la spola con la loro camera.

E intanto io leggevo, mi informavo, chiedevo.

La pediatra sconsigliava assolutamente di portarli nel lettone, a meno che, diceva, non vada bene per tutta la famiglia.

A questo proposito invito alla visione di almeno alcune pagine (no, anzi, compratelo proprio) di un libro assai saggio di auto-aiuto per genitori, di cui vi mostro un'immagine: The Guide to Baby Sleep Positions: Survival Tips for Co-Sleeping Parents.

Non so, noi di bambini ne avevamo due. Queste immagini ci sembravano opera di un dilettante.

Grande rispetto agli autori del libro, nonché del blog www.howtobeadad.com, nonché dell'altrettanto utile pagina Facebook.

Alcuni uomini meriterebbero un monumento.

La pediatra, dicevo, non era molto a favore del co-sleeping.

Noi, da genitori obbedienti e insonni, abbiamo dato retta.

Finché un giorno ho buttato il futon a terra e mi sono arresa.
Ma esattamente, com'è che dormire insieme ai miei pargoletti, cosa che tra l'altro avevo desiderato fin dal primo giorno, per potermi godere ogni attimo e ogni respiro di quei due esserini, dicevo com'è che dormire con loro può essere negativo?
Perché con loro non dormo, forse?
Ma tanto chi dorme, comunque? Basta un loro respiro più profondo, un colpo di tosse, e mi sveglio di soprassalto. E se invece mi sveglio che piangono disperati perché non sono con loro mi viene pure l'ansia. Fare la spola non potrebbe essere più spossante. Il metodo del pianto controllato la ricerca dice sia solo un modo per far venir su adulti insicuri e depressi.

Insomma, il futon per terra a me va benissimo, i loro materassini ai due lati mi consentono pure una certa libertà di movimento.
E quando invece sono paralizzata, fra molteplici tentacoli che mi stringono come un'anaconda prima di cenare con la sua vittima, che volete che vi dica?
Io ho sempre sognato di andare in Amazzonia.

martedì 28 gennaio 2014

Houston, abbiamo un problema: è inverno.

Qui a Houston ci sono alcune cose di qui si può essere sicuri.
L'estate dura circa sette-otto mesi e per il tasso di umidità sembra di vivere in una sauna finlandese.

C-O-S-T-A-N-T-E-M-E-N-T-E.

Un incubo.

L'inverno invece è più generoso.
Tanto generoso che vuole accontentare tutti.
Un giorno è inverno, uno primavera, uno estate, uno autunno.
Più generoso.
A volte le stagioni le vediamo tutte in un giorno solo.

Ci ho messo un po' a capire come funzionava.
Se l'ho capito...
Una collega mi ha svelato il segreto della felicità invernale a Houston: "Listen to the weatherman".
And so I do.
Ormai sono quasi più dipendente da The Weather Channel che da Facebook.
La sera, quando organizzo i vestiti dei bambini per il giorno dopo, li scelgo in base all'apposita App.
Per sicurezza controllo esattamente temperatura minima e massima, precipitazioni, tasso di umidità, pericolo burrasche invernali, ghiaccio, gelo, neve, pioggia, pericolo incendi...
The Weather Channel mi dice se accendere il riscaldamento, il ventilatore o l'aria condizionata.

Nell'armadio abbiamo sempre maglioni, magliettine, gonnelline e maglie felpate.
The Weatherman ci dirà cosa ci serve quel giorno.

La follia metereologica da origine a delle giornate di pura follia, con strade allagate e fiumi che dividono la città, lastre di ghiaccio che obbligano le scuole a chiudere per evitare incidenti. E il giorno dopo, o la sera stessa, via, tutti al parco a goderci il sole!

Everything is bigger in Texas!!



lunedì 27 gennaio 2014

La libertà e la fortuna

I miei tesori non hanno nemmeno 4 anni e nonostante negli USA di solito si vada alle elementari, al kinder, a 5 anni, loro hanno avuto la fortuna di entrare a soli 3 anni in una scuola Montessori, pubblica per fortuna (perché per l'appunto io non sono una expat e a me la scuola privata non me la paga nessuno)

La fortuna è soprattutto nostra, che dopo anni di asilo nido privato finalmente abbiamo potuto respirare e ridurre i costi dell'assistenza ai bambini di oltre due terzi, perché ora il personale del nido, le amatissime maestre dell'Avalon Academy, è incaricato solo di portarli a scuola e riprenderli finché o io o il papà andiamo a prenderli verso le 6. (Perché appunto non essendo expat il nido qui è privato e il cittadino se lo paga)

Da quando erano ancora grandi come due banane nel pancione della mamma, Juan e io guardavamo spesso la meravigliosa scuola del vicinato, che era proprio di passaggio nelle passeggiate verso i caffé locali il fine settimana. Ci piaceva tanto. Un bell'edificio, maestoso senza essere troppo solenne, severo quanto basta per essere credibile, con un bellissimo parco dove immaginavamo le nostre due banane che correvano felici sull'erba e si arrampicavano sugli alberi.

Il sogno Montessori.

Io del metodo Montessori avevo solo letto alcuni libri, ne sapevo dunque abbastanza poco. Mi attraeva però l'idea del bambino libero di operare scelte fin da piccolo, di manipolare la realtà e capire dalle palline e dai cubetti il vero significato dell'universo.
Era magnifico, quasi mistico.
Perché a me quelle sembravano proprio solo palline e cubetti.
Invece, erano l'UNIVERSO.
Libero.
Mi ha sempre preoccupato un po' che l'adulto nel sistema montessoriano facesse un po' la parte del Lupo cattivo di Cappuccetto Rosso, un po' la parte della Fata Turchina di Pinocchio.
Io non mi sentivo né l'uno né l'altro.
O tutti e due.
Ma soprattutto io mi sentivo il bambino.
E pure ora...

Ma non divaghiamo.

Insomma, quando è stato il momento di iscriverli, o meglio di fare la domanda di preselezione per diventare studenti Magnet, perché, chiaramente, questa scuola è la più vicina a casa nostra, ma per ironia delle cartine geografiche e delle zone del distretto noi non rientriamo nella popolazione che ci si può iscrivere di diritto.

ENTRARE A TUTTI I COSTI è stato il nostro motto.

Impavidi di fronte alla burocrazia che ci seppelliva sotto moduli incomprensibili, da consegnare non una, ma almeno tre volte, eravamo pronti a tutto.
Luca è stato il primo a essere accettato.
Nato sotto una buona stella, baciato dalla fortuna.
Per Matteo abbiamo dovuto aspettare il secondo round della lotteria.
E' un po' più come la sua mamma, il mio Matteo.
La stella lo evita, la fortuna lo sdegna.

Ma stavolta le energie congiunte di tutta la famiglia hanno cambiato il destino!
Hanno preso anche Matteo!!
Felicità, emozione, grande orgoglio di padri!!
Avevamo due studenti Magnet in casa!!

Maria Montessori dall'alto, avrebbe protetto i suoi connazionali in terra straniera e io potevo dormire sonni tranquilli, li lasciavo nelle sue mani.
E via! Una responsabilità di meno!

Prima di essere ufficialmente accettati, bisognava determinare se avrebbero fatto parte di una classe bilingue (inglese-spagnolo), ESL (dove nessuno di solito parla una lingua straniera comune) o monolingue, magari con supporto ESL.

Esame catastrofico.

Entrambi i miei adorati bambini hanno fatto sfoggio dell'italiano come unica lingua mai conosciuta, nonostante due anni di nido in inglese e il babbo che con loro ha sempre parlato in spagnolo.
Ammetto di essere una grande chiaccherona.
Ok, una radio accesa costantemente sul mondo di Luca e Matteo.
In tutti i libri di istruzioni su come crescere un figlio avevo letto che bisognava subissarli di informazioni.
E così ho fatto.
In italiano.
Ha funzionato.
Gli unici americani della famiglia hanno scelto di parlare italiano.
Grande orgoglio di mamma.

Dov'era il problema? In una classe bilingue avrebbero potuto imparare a comunicare in spagnolo, visto che come lingua passiva già ce l'avevano, grazie al papà, che però si accontentava delle loro risposte solo in italiano.
Allora ho insistito un po' e ci hanno rimandato a un paio di settimane dopo per un altro esame.
Peggio.
Non sono mai stata dotata di una gran pazienza, ma quando mi hanno proposto di metterli in una classe ESL, cioè insieme a bambini che parlavano arabo, cinese, e non una parola di una delle tre lingue a loro familiari, non mi è sembrata, diciamo, una buona idea.
Regressione comunicativa e poca socializzazione.
Dottoressa Montessori mi stupisco di Lei.

La Direttrice ci ha spiegato (o meglio, ha cambiato idea quando non mi ha visto collaborativa con le scelte della scuola) che sarebbero stati inseriti in una classe monolingue con un sostegno ESL.
Maria ci era venuta incontro.
Non avrebbero avuto un'educazione bilingue ufficiale, ma nemmeno li avrebbero ghettizzati.

Visto che c'eravamo, ho provato a chiedere se i bambini sarebbero potuti stare nella stessa classe, ho elencato i dati scientifici e le ricerche a sostegno della non divisione dei gemelli, il fortunato caso di una scuola dello stesso distretto con centinaia di meravigliosi studenti gemelli che collaboravano in armonia e ottenevano risultati strabilianti.
Nello stesso momento Luca e Matteo, come ninja impazziti, schizzavano dalla cattedra della Direttrice, alla finestra, sotto le sedie e sopra i divani.
"I don't think so" ha risposto lei.
Non ho eccepito.

domenica 26 gennaio 2014

Mea culpa...

Lo devo ammettere. Houston a me, quando sono arrivata NON mi piaceva.
La domanda per tutti gli stranieri che conoscevo era sempre la stessa.
"Ma Houston vi piace?"
Era più una supplica che una domanda.
Nella mia mente mi prostravo ai loro piedi e gridavo ditemidisiiiiiiiiiiiii.
La risposta era sempre la stessa.
"Ci si abitua"
E a me veniva il magone.
Ma chi vuole vivere in una città orribile a cui bisogna abituarsi?
Io vengo dalla Sardegna, Sassari caput mundi, con i miei amici splendidi, il mare, gli zilleri...
Non avevo alcuna intenzione di abituarmi proprio a un bel niente.
E allora mi sono messa d'impegno. Ho cercato, cercato, cercato...
Un film mi ha dato una mano: Hot Town Cool City, Houston vista dalla regista Maureen McNamara. In un solo DVD tutti i tesori gelosamente custoditi dagli Houstoniani. Sul sito web tutti contribuivano con le loro scoperte a darci qualcosa da cercare ogni weekend.
A poco a poco, scoprire che questa è una città di artisti, di attori, di piccoli e grandi musei, parchi urbani e arboreti selvaggi, Ferrari, Porsche e Art Cars, mi ha fatto sentire che in fondo io a Houston potevo anche volere un po' di bene.

E poi sono arrivati loro.

Un San Valentino meraviglioso Juan mi ha svegliato nella stanzetta del Children's Memorial Hermann, dopo essersi alzato dalla scomoda panca dove aveva passato la notte, e siamo andati insieme a veder arrivare prima Matteo e poi Luca.
Hanno passato un mese in terapia intensiva.
Ogni mattina percorrevamo la strada da casa fino al centro medico per stare con loro.
L'inverno faceva strada alla primavera e le azalee cominciavano a sbocciare.
La prima volta che ho detto "sono la mamma di Luca e Matteo" l'ho detto in inglese.
Era come se fossero arrivati due astronauti, con tutte quelle luci nella stanza, tutti quei suoni, quei tubi.
Le emozioni che abbiamo provato, da quando questi due americani sono arrivati nella nostra vita sono forti come un bungee jumping, come un tuffo nel vuoto, come un primo amore.

Ora che i miei ometti houstoniani sono nella mia vita, non devo più sforzarmi di amare questa città.

Ora è casa.


sabato 25 gennaio 2014

Sinverguenzita

E' stato il commento di mio marito quando gli ho detto che avevo ritrovato una bozza di blog e volevo riprendere a scriverlo.
Su cosa?
La nostra famiglia.
Lì appunto è partito il sinverguenzita - equivalente affettuoso di svergognata.
Suonano sempre strane le traduzioni degli epiteti amorosi di mio marito.

Ora loro, gli uomini di casa, i tre moschettieri, guardano Gli Incredibili alla TV.

E io bloggo.

Molto, molto liberatorio.

Dov'ero rimasta? Ah sì, immigrata non expat.
Gli amici più intimi, vicini, conoscono i miei inizi qui. I tentativi di andare a spasso (peggio, al lavoro) in bici o addirittura a piedi, in una città in cui i marciapiedi sono deserti e le autostrade urbane pullulano di automobili con solo l'autista a bordo. Una città masochista dove sembra normale sostenere le compagnie petrolifere (molte locali d'altronde)  appoggiando quotidianamente un traffico folle con mezzi pubblici lenti e inefficienti, anziché chiedere più autobus. In quegli inizi, vista l'assenza di mezzi pubblici efficienti, era il mio capo che dal lavoro mi portava ai colloqui nelle scuole, dove puntualmente mi dicevano che, ah sì, bel curriculum, ma erano contrari a dare un visto lavorativo a un immigrata (ecco cosa non mi rende expat)).
Poi il lavoro l'ho trovato, alla terza scuola, non anni dopo, sono arrivati Luca e Matteo, chiaramente la macchina. Ma la bici è rimasta. Ora sono tre. E decisamente il mezzo di trasporto preferito dai miei bambini ecologici. Insieme all'autobus pubblico.

E ci siamo anche comprati la casa. In un quartiere dove uscire a piedi è normale, e anche in bici. E sui pattini.a rotelle. Abbiamo anche una celebrità sui pattini. Juan Carlos, The Montrose Rollerblade Dancer.
Bello, proprio bello il mio quartiere!

Un po' sinverguenzito pure lui...

Enjoy!!

Ma dove l'avrò messo?

Oggi pensavo proprio: "Ma io avevo un blog da qualche parte..."
Ed eccolo qui.
Su internet non si perde niente, non come a casa mia.

Il primo post di questo mio meraviglioso blog, che mi cambierà la vita e le darà un senso nuovo e profondo, risale esattamente al gennaio di due anni fa.

Andiamo bene.

Un giorno un amico al quale raccontavo le mie disavventure davanti a un camino e una piscina di birra mi ha consigliato di scriverle le mie disavventure, perché erano proprio divertenti.
Alla luce dell'esperienza, degli anni in più e con le rughe della saggezza, credo che in fondo mi prendesse per i fondelli.
Ma a chi non piace un po' di adulazione?
"Grazie, gli ho detto."

Ed eccomi qua, BLOGGER.

Due post in due anni.
Un successo.
Fra i miei follower c'è pure mia cugina.
Andrò lontano?

Ma la cosa migliore è che oggi potrei scrivere lo stesso post di due anni fa.
Ancora dormo con i miei bambini.
Dormo.
Modi di dire.

Soprattutto oggi ho voglia di dire una cosa.
NON - SONO - UNA - EXPAT.
Ecco, fatto, detto, che liberazione.
Che non mi si fraintenda. Io non ho niente contro gli expat. Anzi, io gli expat li invidio. Da grande vorrei essere come loro.
Nel frattempo però, non vivo all'estero alle dipendenze di un'azienda che mi manderà a spasso per l'universo infinito pagandomi tre volte tanto, offrendomi casa e macchina spaziali e invitandomi a mega cene aziendali.
Sono invece proprio un'extracomunitaria. Extra-unitaria. Insomma un'immigrata italiana negli USA. Nemmeno ci si può riferire a me come a un cervello in fuga (ricordate, due post in due anni...).
Io ho proprio mollato il mio paese e sono andata a vivere in un altro.

Nemmeno tanto per mia scelta.

Con il mio amato marito colombiano ci siamo sposati vari anni fa (ora conto) - 8 per la precisione.
Ci siamo sempre chiesti chi lo avesse chiesto a chi, come fosse successo.
Com'è come non è ci siamo ritrovati lui e io, dopo un salto in comune, un pomeriggio sulla spiaggia alla Pelosa e una festa con i miei amici venuti da tutto il mondo (sono sempre stata una potenziale expat, accidenti).
Ci eravamo sposati. Così, come si dice "Ayò a fare un giro".
Solo che vivevamo a un oceano di distanza e con le fedi fresche al dito ci siamo ritrovati a decidere se andare da me o da lui.
Ha vinto lui.
Facile d'altronde, perché anche se io avevo un sacrosanto lavoro fisso per il Ministero della Pubblica Istruzione dell'Università e della Ricerca, a lui veniva offerto solo un contratto a tempo come operaio in un'azienda di fiori. E gli operai dall'aria grigia che avevamo visto non sembrava fossero poi tanto felici.
Così mi sono ritrovata immigrata negli USA. La sposa italiana, conosciuta a distanza. Lo ammetto, sembravamo proprio un po' una scena da Bello, emigrato Australia, sposerebbe compaesana illibata. Vabbé, lasciamo perdere l'illibata.

E dopo (quanti erano?) 8 anni sono una prof in un liceo pubblico e all'università (SOLO adjunct, poco più che lettrice, nientediché), ho due BELLISSIMI gemellini di quattro anni, Luca e Matteo e mi barcameno fra USA, Italia, Colombia, il lavoro di mattina, il lavoro di sera, il nido dei bambini, la scuola Montessori, la palestra (hahahahahaha!!!!), i lavori online, la mia vita matrimoniale e i legami del mio cuore con la mia isoletta in mezzo al mare, che per noi immigrati è sempre Sa Sardigna.