lunedì 12 gennaio 2015

Non chiaccherare. Non disegnare.

A mio nonno ai tempi del fascismo pare venisse consigliato di non andare in piazza durante le adunate. Non perché fosse un partigiano impegnato nella lotta al fascismo, nè un grande pensatore, filosofo o politico, ma solo perché zitto non ci stava e se sentiva delle stronzate opinioni diverse dalle sue gli sembrava giusto, in maniera più o meno (molto meno) elegante farlo notare ai presenti, con toni più (molto più) o meno agitati.
Quindi nonno stava a casa. Zitto no, non ci stava, ma fra le pareti domestiche si poteva essere ribelli ed esprimere le proprie idee liberamente, che al massimo non ti stava ad ascoltare nessuno.

A me da piccola leggevano Gian Burrasca, come esempio di difensore della libertà di espressione che in un modo o nell'altro si mette sempre nei guai.

Mia madre diceva che se fosse nata in un passato storicamente non ben definito, sarebbe stata sicuramente punita dal Sistema per non saper tenere la bocca chiusa. Degna figlia di suo padre.

Una famiglia di chiaccheroni.

Pochi anni fa nella mia città un gruppo di chiaccheroni è stato accusato di terrorismo, non perché fossero state trovate reali prove concrete contro di loro, ma solo perché avevano fatto affermazioni minacciose, o anche non minacciose, semplicemente considerate pericolose.

Faceva bene chi suggeriva a mio nonno di stare a casa.

Ricordo che anche io quando ero giovane e avevo occupato un asilo insieme a un gruppo di rivoltosi umanoidi, avevo sentito qualcuno dirci di fare attenzione, che avevamo i telefoni sotto controllo, che era pericoloso.
Non capivo bene cosa ci potesse essere di pericoloso a occupare un asilo. Al massimo la stagione, visto che noi, anziché fare la primavera di Praga avevamo deciso di fare l'autunno-inverno di Monserrato, e faceva un freddo boia a dormire in una casa senza porte o finestre solo col sacco a pelo vecchio. Pericoloso o no mi era piaciuto moltissimo. Avevo anche imparato a suonare Hey Joe alla chitarra. L'unico evento artistico della mia vita.
Mi vergognavo un po', perché io all'asilo poco ci facevo: gli altri occupanti erano tutti musicisti, disegnatori: avevano fatto dei murales che io, che non avevo fatto niente, se non eventualmente rifornire il gruppo di tè caldo la sera, non ero degna neanche di guardare.
Non potevo che ammirare i rivoluzionari che mi avevano permesso di aggiungermi a loro.
E collaboravo chiaccherando, visto che a me, quanto a chiacchere, in pochi mi battono.
Eredità di famiglia.

Quell'occupazione aveva dato il via a tutta una serie di altre occupazioni, principalmente all'università, dove, devo ammetterlo, non ho fatto che rimpiangere l'asilo, freddo, sporco, ma pieno di creatività e di gente onesta che rivendicava uno spazio proprio per creare. Occupare l'università era più comodo, si dormiva nell'Aula Magna sopra la moquette, al calduccio. Nessuno mi ha insegnato una nuova canzone però, e quei rivoluzionari mi si erano pure rubati le meccaniche della chitarra. È sicuramente quello che ha stroncato la mia carriera musicale. Anche lì si rivendicava uno spazio. Politico. O meglio direi un posto in politica. Giovani rampolli della bella società rivoluzionaria. Io ci stavo anche peggio che all'asilo. Assolutamente fuori posto.
Neanche a dirlo, lì non disegnava nessuno.

Ma il vero atto rivoluzionario della mia vita è stato quando ho deciso di scoprire se quella gentaglia che tanto casino aveva fatto a Seattle era veramente gentaglia. Alla tv, nonostante quello che dicevano i giornalisti, a me sembravano proprio persone perbene, che chiedevano soltanto di essere democraticamente presenti quando i Signori dell'Universo si riunivano a decidere chi vinceva a Risiko. Mi sembrava molto lecito, anzi addirittura encomiabile, che qualcuno girasse il mondo solo per dimostrare la propria opinione e guidare i Signori verso delle decisioni giuste e condivisibili per tutti.
La tv invece li faceva sembrare dei mostri. Ma come può essere mostro chi vuole un mondo migliore?
Allora, nel 2001 mi sono imbarcata per Genova per unirmi a loro, con una banda di chiaccheroni meravigliosi, alcuni di soli 15 anni e con una cultura e delle idee che io non avevo mai sentito. Gente davvero rivoluzionaria. Fra di loro c'erano anche alcuni che molto rivoluzionari non erano, diciamolo, ma tanto, una volta scesi dalla nave, quelli si sono visti ben poco, che l'aria era tesa e i sacchi a pelo scomodi.
Come è finita quella meravigliosa avventura si sa.
Anche a noi, come a mio nonno, la polizia ha detto che dovevamo starcene a casa. Anche se non eravamo pericolosi. Solo per il fatto di parlare troppo.

Ora il fatto è che da quando sono arrivati Luca e Matteo il mio sogno è andare a una manifestazione con loro, insegnargli a conquistare la strada, a parlare con la gente, a imparare da uno sconosciuto a suonare Hey Joe. Luca poi, mi ha detto che vuole fare l'artista. Non solo di disegni, anche di statue. Sarei così orgogliosa di vedere un giorno dei murales rivoluzionari fatti da lui.

Ma la verità è che io a una manifestazione non ce li ho ancora portati.
Perché ho paura.
Perché i grilletti sono veloci e i gas bruciano la pelle.
Perché dovunque ti volti chi vuole limitare la tua libertà ti minaccia.
Perché quando si uccide, a una manifestazione o sul posto di lavoro, si creano cadaveri da appendere sulla pubblica piazza, a monito.

Io in piazza a Parigi non ci sarei stata.
Con tutta quella gentaglia in prima fila, che censura la gente alle manifestazioni con la violenza, fratelli di chi uccide per punire dei disegni o delle parole.
Perché li hanno accettati? La strada è della gente comune, non dei potenti.
Sono andati a fare un balletto macabro sulle tombe di chi non li ha mai rispettati.

Nemmeno voglio che i miei figli diventino due chiaccheroni da salotto, o che Luca disegni per i suoi amici, nella sua cameretta.
Devono imparare a pensare, devono crescere liberi, Gli comprerò più colori, gli insegnerò ad amare la gente e la strada.

E quando sarà ora ci andremo insieme alle manifestazioni e io avrò imparato a farmi coraggio per loro.

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