Mi sono tolta un dente, anzi due.
Proprio quelli del giudizio, mai arrivato.
Mi ero sentita molto orgogliosa quando erano spuntati.
Come una premonizione che qualcosa sarebbe cambiato.
Sarebbe arrivato il G-I-U-D-I-Z-I-O.
Un po' come il giudizio universale, ma io con quei denti ne uscivo bene.
Quattro biglietti verso la maturità e il buon senno comune.
Si dà il caso che il senno comune crei vari problemi, cresca a volte orizzontalmente e spinga quei proletari degli altri denti in maniera tale da provocare dolore e consunzione.
Un po' una rivoluzione oligarchico-dentale senza rispetto per chicchessia.
La soluzione è sempre la stessa: liberarsi del problema alla radice.
Una rivoluzione.
In Italia ne avevo tolti due, con gran dolore e terrore.
Un film horror durato secoli in cui il dentista doveva trovare mille appoggi per far leva e tirar via il mostro che si teneva con tutte le sue forze a una gengiva ormai stremata.
E io pure.
In America, ah, l'America, me ne hanno tolti due senza nemmeno dire trullallà.
I nostri gringos sono contrari alla legalizzazione delle droghe?
Mannò, proprio per niente!
Vengono amministrate dai dentisti.
Pusher novelli ed espertissimi.
Io per togliere questi denti sono stata sottoposta a una flebo di non so bene cosa.
Solo so che quel tubino nella mano mi ha fatto sognare.
Il dentista spaccava, trapanava, tirava, probabilmente martellava, magari c'era pure un moto picco.
Il fatto è che io NON HO SENTITO NIENTE.
Anzi, no, sarebbe una bugia.
Io mi sono sentita FELICE!
Lui faceva, io sognavo, mi godevo quel momento di pace, di armonia con me stessa e con l'universo.
Ogni tanto sentivo qualche colpetto.
Ma cos'era qualche colpetto, se paragonato alla flebo della felicità, della bellezza sublime (perché io, con quegli aggeggi in bocca, la faccia contratta in una smorfia munchiana e un signore con gli occhiali che mi armeggiava sul giudizio, mi sentivo proprio bella)
Non sono riuscita a rattristarmi nemmeno quando ha finito.
Su una carrozza reale, sono stata accompagnata fino al mio cocchio, dove il mio autista designato, il caro marito, mi ha fatto salire (volando con lui in un valzer di fiori) e mi ha ricondotto a casa.
Ho passato la giornata nel mio paradiso color di rosa, senza giudizio, ma a che serviva, tanto?
Devo ammettere che in questo paese il dolore non te lo fanno provare.
Anche dopo aver avuto Luca e Matteo, già dopo il primo giorno spingevo la carrozzina e da loro ci andavo da sola, dopo quattro giorni salivo le scale come una fatina.
Solo un po' a rilento.
Certo, la prima volta che sono andata dai bambini senza carrozzina ancora me la ricordo... Ho passato il tempo, almeno dieci minuti, trascinandomi a premere il pulsante dell'ascensore e poi a raggiungere le porte che si aprivano... troppo lenta per raggiungerle prima che si chiudessero...
Ricordo anche quando eravamo in macchina, ogni pietruzza e ogni dislivello della strada di casa che mi tirava la ferita.
Ma dolore, quello vero, descritto con tanta dovizia di particolari da chi mi aveva preceduto nella scala riproduttiva in Italia, mai.
Non so cosa sia.
Flebo, anestesie, vicodin, ibuprofen... Non so, sembrano versi di una poesia, parti di un incantesimo da recitare con solennità, fiale magiche che per un secondo, un'ora, quel che è, ti portano in un altro mondo, più bello, più giusto.
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