mercoledì 13 maggio 2015

Boicottaggio materno. Costruire un mondo migliore facendo la mamma.

La mia mamma non era molto etica. Ai suoi tempi era difficile capire perché una bambina di otto anni poteva non trovare tenero giocare con la pelliccia di Ocelot.
"Guarda, è come abbracciarlo!" mi diceva accarezzando la nuova giacca.
"Eh, morto però."

Capirete bene che i problemi generazionali erano tanti.

E ancora di più ne avremmo ora, se fosse ancora qui.

Per esempio: io a fare la spesa vado armata di IPhone e della mia fedele alleata, l'app Buycott! Una piccola meraviglia tecnologica in cui ho introdotto, in ordine di priorità, tutte le campagne ecologico-politico-umanitarie che sostengo. Il piccolo congegno digitale scannerizza il codice a barra e voilà! salta fuori se il succo o il latte o i biscotti nel carrello della spesa potrebbero trasformarsi in armi di distruzione di massa dei miei principi etici.
(Sarà per questo che il Colombiano si rifiuta di fare la spesa con me? Mah...)

Uno dei prodotti che la mia fida alleata per qualche strano motivo non mi chiede di evitare è la Nutella.
Sarà che anche Buycott è semplicemente fan di questo prodotto divinamente pericoloso, per cui, diciamolo, si darebbe anche la vita...

Però non si dà!

Si decide invece di farla in casa, spendendo chiaramente fior fior di dollaroni in più per comprare ingredienti sani, nutrienti e senza il nemico olio di palma.
Ecco la Ricetta: http://www.tuttogreen.it/nutella-fatta-in-casa/

Così come lo yogurt, la pasta, in generale tutto il mangereccio a casa mia è fatto in casa, anche la magica apple sauce, pappina di mele cotte, che fa tanto bene ai pancini.

Chiaramente la Gerber o chi per lei non ha guadagnato nemmeno un centesimo dal nostro svezzamento.
La nostra guru è stata l'autrice di un bellissimo libro, che ho poi scoperto essere mamma di gemelli anche lei! 
Ricette semplici, dispendio energetico ed economico minimo, pancini soddisfatti!


Il menù della guru è inoltre fondamentalmente vegetariano, quindi speravo di poter incoraggiare i miei piccoli a seguire il regime alimentare della mamma.

Tutto perfetto.
Finché il Colombiano non ha presentato una salsiccia a Matteo...
I canini sembrava gli si allungassero solo alla vista delle proteine animali...

Battuta da una salsiccia.

Oh well...
Mai sposarsi con un carnivoro...

Luca tentenna fra vegetarianesimo, pescatarianesimo e "mangio solo le mucche nere"...

Spero sempre che capiranno da grandi.

 Per me la cucina deve essere fatta in casa, anche quando è solo un panino al formaggio, una mela e uno yogurt per il pranzo della scuola.

Il fascino del precotto, del vassoio della mensa e di quei bei piatti fritti, però, ha decisamente corrotto Luca.

Quest'anno è arrivato uno dei magici messaggi registrati della scuola, che diceva che "Lo studente Luca Pinco Pallino deve $2.75 al Servizio Mensa".

Strano, ho pensato: noi a scuola gli mandiamo il pranzo tutti i giorni...
Tornata a casa ho chiesto al mio signorino conto della telefonata e lui si è fatto prendere dal panico: 

"Ti ha chiamato la scuola???"

Lì ho capito che c'era sotto qualcosa.

Il vassoio e il precotto avevano vinto!

Luca aveva fatto finta di non avere il pranzo per poter mangiare le stesse cose dei suoi compagnetti ed era andato a mangiare alla mensa. E ora arrivava il conto.

"No, mamma! Ho pagato io! Con la carta, come fai tu al supermercato!"
Peccato che la sua, di carta, fosse solo il tesserino identificativo della scuola...

Allora ho provato a dirgli che se voleva, mamma lo faceva mangiare alla mensa, ma che bisognava dirlo e pagare.

La grande felicità dei pargoli è durata poco: 
Servizio Mensa - Mamma, 0 a 1!

Sono tornati dopo due giorni, dicendo che faceva schifo e rivolevano panino, yogurt e mela!

Evviva!

Come mamma che lavora, ho sempre un po' paura di non dare abbastanza di me ai miei piccoli.
Magari per questo ci tengo tanto a compensare col fai-in-casa-da-te.

Ognuno ha le sue fisse!



martedì 12 maggio 2015

Omero a 5 anni

Stasera osservavo i miei bambini scegliere fra l'Iliade e la Divina Commedia come favola della buona notte. 

Non so come mi è venuto il raptus.

Qualche giorno fa cercavo dei libri che potessero ispirare i miei cinquenni e mi sono ricordata della passione di Luca per Occoli (Hercules, in inglese, ma quando lo chiama lui suona più così).

Il salto da Occoli a Omero è stato breve.

Amazon ha suggerito il resto.

Vedere mio figlio che si emoziona a scoprire le macchine di Leonardo e a riconoscere la Gioconda, che la maestra aveva già mostrato in classe, ha probabilmente emozionato me molto di più.

Il mio biondino invece, a vedere tutti quei libri, e il fratello che qualcosa lo conosceva già, si è fatto sopraffare e non si è avvicinato.

Stasera però ha avuto il coraggio di dare uno sguardo, ha visto le immagini, i soldati, gli eroi e gli dèi, così simili ai personaggi dei suoi cartoni animati.

L'opera di coinvolgimento è stata facile.

Per Luca è stato sufficiente sentire il nome di Zeus.

Zeus!!!

Grande emozione!

Al doposcuola dei bambini più grandi fanno loro catechismo non richiesto, ma Luca è affascinato dall'idea di un dio e fa domande di ogni tipo...

Non vi dico quindi come sfogliava La Divina Commedia, guardando le immagini accattivanti del libro.

Certo, sono adattamenti delle versioni originali, ma io spero di installare in loro l'amore per la letture, per i classici, per la simbologia e le figure retoriche.

Da grandi saranno ingegneri, dottori, meccanici, idraulici, poeti o artisti.

Quello che li farà felici.

Qualsiasi vita avranno, spero troveranno lo spazio per un libro nello zaino.







domenica 10 maggio 2015

Auguri, mamma!

È arrivato uno dei miei giorni preferiti dell'anno.

I miei bambini si preparano, si alleano con il papà per scrivere bigliettini pieni di amore, offrirmi profumi e poesie e portarmi fuori a colazione (o pranzo, o cena, un po' come capita).

Una gioia per loro, che fanno una sorpresa alla mamma, una gioia per me, che ricordo il momento in cui per la prima volta ho detto all'infermiera dell'ospedale che ero "Luca and Matteo's mom".
In quell'istante un'ondata di emozioni mi ha travolto e ho capito che davvero ero diventata una mamma.
Per mesi avevo solo giocato ad esserlo.
Alla mia età una gravidanza era piena di rischi, per la mia salute, quella dei bambini, la loro stessa esistenza era a rischio ogni istante.
Così avevamo deciso di giocare a fare i genitori per nove mesi, sperando di poterlo essere anche negli anni a venire.

Dire che ero diventata la mamma di Luca e Matteo mi ha riempito di gioia, ma anche di perplessità.
Riconoscevo tutte le difficoltà di quel ruolo, ne studiavo tutti i limiti e tutti gli orizzonti.
E ancora ora, sono ben lontana dall'aver imparato.

La giornata di oggi è stata marcata da un'ombra, due, mille.

Un figlio oggi non starà con sua madre.

Ho vissuto quella paura da quando sono nati i miei figli. So che è un dolore a cui non sopravviverei. O forse sì, si sopravvive a tutto in fondo.

Una madre è stata poco accorta, ha pensato che nessuno scoprisse cosa succedeva fra le pareti domestiche, che nessuno se ne sarebbe interessato.
Ma il figlio ha avuto fiducia negli altri adulti della sua vita.
E oggi una madre ha passato questa giornata senza di lui.
Per quanto difficile sia vivere insieme, per quanto esistano abusi, violenze, disturbi mentali, il distacco da un figlio deve essere un dolore insopportabile, lacerante. Così come per un figlio il distacco dalla madre.
Su questo contava lei. Sulla dipendenza reciproca che non spezza il legame dell'abuso.

Un'altra madre non starà con suo figlio oggi. Glielo hanno ucciso, per una violenza profonda e inspiegabile, che divide famiglie che abitano lo stesso territorio.
Senza una guerra, senza disastri naturali.
Per vendette ataviche che ancora portano morte e strappano giovani vite dalle loro madri, nel cuore di una Sardegna ricca di cultura e tradizioni, in cui qualcuno decide di rispettare dei riti che la riportano indietro nel tempo di millenni, anziché verso il futuro.

Un'amica ha condiviso oggi un post, in cui si discuteva se festeggiare o no una festa che celebra la donna come madre, quando la donna è molto di più; se è ancora appropriato che il ruolo della madre, e non di un genitore, lontano da ruoli tradizionali, debba essere considerato speciale, in un mondo in cui le famiglie hanno due madri, o due padri, o solo un genitore, o nessuno; ci si chiedeva in questo post, tutti insieme, non in una baruffa gender o non gender, femministe contro le altre, ma come donne, o uomini, o esseri umani in un mondo che cambia e che rispetta, se non sarebbe meglio avere piuttosto una festa del genitore o invece un diverso approccio all'idea di maternità legata al quotidiano, non a un giorno di maggio con fiori e cioccolatini.
Mi piace che si discuta, che si metta tutto in discussione per creare un mondo diverso, con valori nuovi che diano luce all'umanità in ciascuno di noi.

Penso però a quanto è stato difficile per me diventare madre, per molte delle donne che conosco, penso a chi non ha potuto realizzare il suo sogno. Ma anche a chi vive la maternità con tutte le difficoltà che comporta: i compromessi per il lavoro, per la propria identità, per la sopravvivenza, spesso solo per riuscire a tenere i propri figli con sé, per crescerli felici o almeno limitando i danni.

Il dolore del fallimento fa parte di ognuno di noi, ma anche la gioia di farcela, quando ce la si fa. E credo che questa festa sia una scusa, per riunirsi con i propri figli, a festeggiare che nonostante le difficoltà si continua a vivere , a volersi bene e a ringraziarsi di essere insieme e a farsi promesse per costruire un mondo più giusto per tutti. Come mamma.

Giovedì andrò a scuola con Luca e Matteo per la festa dei genitori. Mi prepareranno e mi serviranno la colazione. Per ringraziarmi di tutto quello che faccio per loro. E ci sarà anche Juan, perché è il papà. E ci saranno i papà, le mamme, gli adulti della vita degli altri bambini, a cui i loro piccoli offriranno la colazione.

E sarà una bella festa per tutti.

Un mondo migliore.


martedì 5 maggio 2015

I don't like you

Me l'ha detto così, all'improvviso.
Davanti alla televisione.
Poi ha indicato i punti rossi sul mio braccio e ha aggiunto: "You're spooky".
Il mio bambino, proprio quello fra i due che è sempre stato più attaccato a me, quasi che solo la mia presenza o il mio abbraccio potessero far tornare il mondo alla normalità, come se solo io potessi allontanare i mostri della notte e vincere i nemici immaginari, proprio lui, mi ha ferito a morte.

Non mi piaci.

Se lo avessi letto su uno dei libri di istruzioni per bambini, non ci avrei creduto.
Come può un figlio tuo, che ami e adori alla follia, dirti che non gli piaci.

I don't love you.

Per rincarare la dose.
Me lo ha detto di nuovo, più volte.
Dopo averlo detto aveva l'espressione di chi è spaventato dalle sue stesse parole, come se fossero diventate un'arma nucleare in grado di distruggere tutto. E meno vuoi farlo, e più ne hai paura, più lo dici, come se un mostro si impadronisse di te.

Lo stesso mostro che spaventa me, quando alzo la voce con  te, perché sono stanca, perché la vita ha il sopravvento e mi dimentico che sono la tua mamma, che dipendi da me, che hai bisogno di tutta la mia attenzione, non delle ore in più di lavoro.

Mi sono spaventata così tanto che sono andata a cercare nella mia sfera di cristallo (tutte le streghe ne hanno una).
Ho scoperto che siamo in tante. Che molti bambini decidono di dire I don't like you alle loro mamme. In tutte le lingue del mondo.
Quando vanno di fretta, hanno i minuti contati, quando dicono troppo di fare silenzio, la nanna, i compiti, di fare da bravi che mamma ha da fare.

Coi pugni chiusi mi hai detto ancora che non ti piaccio.
Mi hai visto triste mentre ti dicevo che anche se io non piaccio a te, tu a me piaci molto e ti voglio bene. E te ne vorrò anche se tu non me ne vorrai più. E non alzerò più la voce perché ti spaventa. Cercherò di ricordarmi che io sono grande. Tu ancora no.

Poi è arrivato Juan e gli ha parlato di quanto la mamma era triste perché il suo bambino non le voleva più bene.
Si è stupito. Forse pensava che fosse ormai impossibile rimettere insieme i cocci di un cuore spezzato per ricominciare tutto come se niente fosse.
È venuto da me e mi ha abbracciato.

Ora se gli chiedo: "Mi vuoi bene?"
Mi dice di sì.

Non come se niente fosse.
Abbiamo imparato tutti e due come volerci bene.
Io so che devo ricordarmi che lui esiste e che ha bisogno di me e dei miei sorrisi solo per lui.
E lui ora sa che con la mamma può sbagliare, che lei sarà comunque lì ad aspettare che torni.

domenica 8 marzo 2015

Le mamme-propaganda


Adoro le mamme blogger.

E quelle che fanno i video su YouTube per insegnarti a usare un passeggino, a montare un seggiolino per auto, o le contorsioniste che ti insegnano a usare il Moby o le fascie portabébé all'africana, e come giocoliere affannate fanno volare i loro bambini davanti, dietro, su un fianco, sudando, per mostrarti che non devi avere paura a fare la mamma, che è tutto semplicissimo.

Amo le mamme scrittrici, quelle che scrivono libri utili, consolatori, tristi, allegri.

Quelle che sono mamme e felici di esserlo.

Quelle che ancora si chiedono quale valanga le abbia travolte e come riuscire ad arrivare al giorno dopo.

Una certa mamma blogger però mi fastidia.

Molto.

MOLTISSIMO.

E probabilmente non è nemmeno sola, sicuramente la seguono in tanti/e.

Magari è anche la più ammirata dell'universo e ha un conto in banca che piange meno del mio.

Ero incerta se scrivere o no di lei, perché proprio vorrei evitare di farle pubblicità in qualsiasi modo.

Ma poi mi sono chiesta: sarà l'unica??
Ci saranno altre mamme che usano internet per pubblicizzare sottomissione e disciminazione?

Per quanto riguarda la sua sottomissione, mi preoccupo e non mi proccupo.
Vuoi sottometterti?
Fai pure.
È proprio la pubblicità e il metterlo online che mi preoccupa.

Perché io, appena sono nati i miei bambini ma anche ora, nei momenti di sconforto o quando semplicemente ho bisogno di conferme, guardo un po' qua e un po' là cosa dicono le altre, quali sono i canoni vigenti su come una mamma-donna-moglie moderna deve comportarsi.
Salvo chiaramente non seguire poi nemmeno le regole da me stessa riconosciute come valide...

Insomma, io comunque cerco, mi confronto, leggo e ascolto.
E ci sono alcuni momenti in cui, a seconda di quello che leggo, mi metto in discussione.
Magari sbaglio. Magari devo cambiare tutto. Magari veramente il modo di pensare di questa mamma è quello giusto e io sono un fallimento.
Momenti di debolezza e pessimismo che penso abbiano tutte.

Ho preso le distanze da una religione in cui mi rispecchio solo in momenti di poca lucidità e i cui ideali condivido solo quando si parla di tolleranza e di accoglienza dell'altro...
Quindi praticamente mai in questo momento storico.

Questa signora, sfacciatamente cattolica, non ha fatto che allontanarmi di più da un mondo retrogrado che sfortunatamente anziché progredire, sembra voler tornare a delle origini buie e medievali.

Sottomessa? Ma sottomessa a chi? A mio marito? Ai miei figli in quanto uomini?

Ragioniamo.

Non nascondo che probabilmente Il colombiano spesso e volentieri sogni una donna docile, sorridente, accudente, che si occupi della casa, dei panni, dei piatti, di riempirli, lavarli, riporli.

Credo anche però che apprezzi il doppio salario a scadenze regolari, soprattutto quando si avvicinano le scadenze, la responsabilità condivisa e una donna che nei momenti di crisi prende in mano la situazione e da pirata coraggiosa salva il salvabile.

Certo che sarà anche orgoglioso di sè, quando il salvabile lo salva lui e corre in mio soccorso come un guerriero sul suo cavallo bianco.

Penso anche che, nelle serate in cui si occupa lui dei bambini aspettando il rientro dal mio secondo lavoro, sia orgoglioso di mostrare ai suoi figli che è capace anche lui di cucinare, riordinare (... vabbé, è che oggi sono di buon umore...), fare il bagnetto e leggere le storie della buona notte.

Chi può desiderare un compagno o una compagna sottomesso/a? Sarebbe come avere per partner un mulo da soma, ma nemmeno, un'amoeba, una gelatina... Quale persona, in piena salute fisica o mentale potrebbe pensare a una persona sottomessa come compagna di vita?

Infatti, dicono i critici a cui libro e blog della signora sono piaciuti, lei era ironica.
Il titolo sarà ironico, il contenuto sarà scritto in stile leggero-brillante (onestamente a tratti io ho sorriso...), ma il titolo e le idee medievali restano.

Io lo definirei un libro talebano. I Sentinelli di Milano lo hanno classificato come terrorista.
Come non essere d'accordo?

Quando i princìpi su cui si basa una famiglia, un matrimonio sono l'accudimento dell'ovviamente inetto sposo e la trasformazione in tappetino lacero della moglie, in un paese dove la violenza sulle donne ha dimensioni tali da essere diventato un crimine a sè e per giunta in grande aumento.

Perché l'idea della sottomissione, che questa cara signora usa con ironia, non ha proprio niente di ironico. È costantemente presente nella mente malata di tutti quegli uomini che non essendo capaci di tenere testa a una donna che possa avere le sue idee, una maniera diversa da loro di vivere la vita, decidono di sottometterla. O sottomessa o morta, cara signora Miriano, è così che in molti vogliono la donna.
Capirà dunque che almeno io non apprezzi il suo umorismo.
E non solo io, ma tutti quelli che in una donna vedono ben più della metà di qualcun altro o della madre degli uomini futuri.

Terrorismo, cara signora, questo è quello che fa lei, e nella sua tela di ragno fa cadere le donzelle ingenue che credono alle sue facili battute sulla vita quotidiana.

Breve elenco delle espressioni da lei usate che dovrebbe seriamente riconsiderare:
(dal suo blog sfortunatamente accessibile anche a chi il libro non o compra)

"Anche noi quindi dobbiamo uscire dalla logica del potere, capovolgerla completamente. Innanzitutto perché la sottomissione non viene dal deprezzamento, non la si sceglie perché si pensa di non valere. E poi perché è il frutto della scelta della donna è il fatto che l’uomo sarà pronto a morire per lei."

Ma a lei glielo fanno vedere il telegiornale di tanto in tanto?
Ce lo dà il numero di quelli che morirebbero per una donna?
Di solito si vedono quelli che la fanno fuori.


"Quanto ai ruoli e ai rapporti di forza tra i sessi devo a malincuore ammettere una cosa. Essere donna mi ha procurato solo vantaggi: ignoro se la mia auto possegga una ruota di scorta, ed eventualmente dove si nasconda, la subdola. Non ho la minima idea di come, attraverso quali misteriose vie la mia casa venga rifornita di energia elettrica, calore, gas. Posso guardare Sex and the city e trascorrere svariati minuti a scegliere uno smalto senza perdere il mio prestigio, perché la mia frivolezza è ormai socialmente ammessa. Ho avuto il privilegio incommensurabile di ospitare e sentir muovere quattro bambini nella pancia, anche se, lo ammetto, nei momenti di farli uscire l’aspetto del privilegio non mi è sembrato il più evidente.
Non ho mai subito discriminazioni di genere. Al lavoro capita di non essere apprezzati e valorizzati, ma capita agli uomini e alle donne. E la riuscita professionale è determinante per l’identità di un uomo. Conosco molti, moltissimi uomini demoralizzati, a volte depressi per come vanno le cose nel mondo del lavoro, per la prepotenza, la mancanza diffusa di meritocrazia e professionalità."
Lei non ha mai subito discriminazioni di genere QUINDI queste non esistono.
Un tantinino autoreferenziale no?
"La sottomissione alla quale mi hanno invitato tante persone sagge che ho conosciuto, e che io a mia volta ho proposto nelle lettere alle amiche, è il desiderio leale e onesto di servire lo sposo. Un servizio che, lo dico per l’ultima volta (e se qualcuno me lo chiede ancora mi suicido ingerendo questo pacchetto di nachos direttamente con la busta) può non entrarci niente con chi carica la lavastoviglie. Può significare accogliere le inclinazioni dell’altro, per esempio non organizzare una cena che a lui non va, oppure organizzarne un’altra che lui vuole. Cercare di indovinarne i desideri, anche perché essendo tutte noidesperate fishwives, sappiamo che un uomo, muto come un pesce per quel che riguarda se stesso, difficilmente esprimerà i suoi desideri in modo aperto e lineare."
L'uomo dunque accettato come idiota e pure sordomuto incapace di comunicazione.
Signori uomini, se a voi questa è simpatica, peggio per voi.
L'elenco di citazioni sarebbe infinito.
Non sono tempi di sottomissione questi, sono tempi di unione, non tempi di dare consigli alle altre donne, ma piuttosto di dare coraggio, dignità e valore.
Vuole servire il suo uomo? Prego!
Ma non si metta a dire alle altre come gestire le loro relazioni o su cosa basarle.
Le donne per me sono quelle che a volte condividono e altre volte invece chiedono, pretendono, quelle che se vogliono essere ascoltate lo fanno sapere con tutte le tonalità che conoscono, e che devono sapere che per questo non verranno punite, per eccesso di presunzione o per volere occupare un posto che a loro non spetta.
Per carità, non sottomettiamoci!!!
Mettiamoci accanto piuttosto, mettiamoci insieme.
Al nostro compagno, compagna, alle nostre amiche e ai nostri amici, alle nostre figlie e ai nostri figli, per crescere in pari dignità, con pari diritti.
Buon 8 marzo!
Immagine cortesemente rubata ai Sentinelli di Milano

venerdì 6 marzo 2015

Houston per bambini. Istruzioni per l'uso. Parte prima.

Questo post è tutto per le mamme green.
Non tanto le mamme ecologiche, quanto le mamme al verde.
Spartane, risparmione, o più semplicemente quelle che vogliono insegnare ai loro figli che le cose migliori nella vita sono gratis (o quasi) e che soprattutto le cose migliori devono essere gratis. E per tutti.

Anche negli USA!

Ci sono varie opportunità per passare il tempo in maniera educativa, divertendosi un bel po' e soprattutto in una dimensione umana di incontro e scoperta.
L'ideale per i bambini.
L'ideale per le mamme.

Uno degli eventi che noi amiamo di più sono i Family Days al Bayou Bend, una casa storica di Houston che organizza una volta al mese giochi, storytelling e visite guidate durante le quali si può fare un viaggio indietro nel tempo alla scoperta della storia e dei costumi americani attraverso i racconti delle guide e gli oggetti della collezione dei signori Hogg.
A disposizione dei bimbi ci sono poi vari giochi d'epoca, per divertirsi sullo sfondo dei meravigliosi giardini e delle fontane.

Il Bayou Bend è parte del Museum of Fine Arts di Houston. Aperto gratis tutti i giovedì fino alle nove di sera, offre molte attività per le famiglie soprattutto la domenica. Unica pecca: le attività per bambini sono dall'una alle quattro e noi amanti del sonnellino pomeridiano ce le perdiamo puntualmente. Con un modico investimento di $80.00 però si diventa membri, e si può partecipare a vari eventi per famiglie, come la festa di Natale, con musica, lavoretti natalizi da far fare ai bambini e il prestigiatore e il suo coniglietto, che tanto affascina gli hipster dagli 0 ai 99 anni (ok, diciamo forse fino ai 10...).

Nel cuore della città, costruita attorno alle autostrade che la attroversano e con il petrolio come prima fonte di sopravvivenza di chi la abita, si trova invece il Discovery Green, un parco bellissimo fra i grattacieli di Downtown che offre un numero di eventi incredibile, mercatini del sabato, concerti, laboratori e attività per tenersi in forma. A noi piace soprattutto andarci per vedere i film all'aperto, seduti sulla coperta a fare un picnic, sia d'estate che d'inverno.

Chi vive in Texas poi non può perdersi una bella giornata fra gli alligatori!
Al Brazos Bend State Park li potete facilmente vedere, stesi a prendere il sole sulle rive dei laghetti (possibilmente sulla riva opposta del laghetto, su un'isoletta lontana da voi). Questi docili animaletti sono decisamente più grandi della mia Seicento, ma fortunatamente mangiano bene e non sono interessati alla carne umana. Se ne incontrate uno, comunque, meglio non fare tentativi di socializzazione. Il parco offre molti sentieri facilmente percorribili anche con bambini piccoli e tante zone picnic. Nel centro informazioni potete anche fare le coccole ai piccoli degli alligatori e imparare tante cose su fauna e flora locale. Si paga un ingresso minimo, che va comunque ad aiutare la conservazione dei parchi texani. E a noi i parchi texani stanno molto a cuore!

Poco prima del Brazos Bend c'è anche il George Ranch, una gemma texana da visitare soprattutto in autunno, durante i Texian Market days, quando lo staff dispiega le forze per mettere in scena una colossale battaglia fra soldati del passato con cannoni e baionette. Tutti vestiti a seconda dell'epoca che presentano, vi fanno fare un salto nel passato e insegnano ai vostri piccoli come si viveva quando non esistevano elettrodomestici o internet.
Grande esibizione di animali, laboratori artigianali e case d'epoca anche qui, oltre a tanto spazio dove correre, saltare ed... evitare gli alligatori a spasso... Sì, anche qui!
Il ranch non è gratis, ma stavolta vale proprio la pena fare un piccolo investimento!

Approfittando del fatto che qui al sud il sole brilla più o meno dalla fine di marzo alla fine di novembre e fa spesso caldo anche durante gli altri mesi, è possibile divertirsi nei vari splash park (Water Spraygrounds li chiama il comune) dotati di giochi d'acqua per grandi e piccini, dove con un costume da bagno e una merenda ci si può divertire per ore. Li trovate anche al Discovery Green e a Hermann Park, ma nei parchi più piccoli correte meno il rischio del sovraffollamento. Per chi vive all'interno del loop della 610, l'Erwan Chew park è splendido (e potete anche portarci il vostro amico a quattro zampe se ce l'avete).


domenica 15 febbraio 2015

Specchio, specchio delle mie brame...

Per una donna la sfida dell'identità è qualcosa di estremamente complesso.
Crescendo avevo la tendenza, comune mi sembra fra donne della mia generazione o della generazione di poco precedente, a identificare l'identità maschile con la libertà, l'indipendenza, l'intraprendenza, a volte temo anche l'intelligenza. Anche da poco mi è capitato di sentire donne (cresciute...) che affermavano di avere prevalentemente amici uomini. Da donne indipendenti, intelligenti e intraprendenti, come si può infatti pensare di poter fare amicizia con esseri di cui si accetta la scontata inferiorità?
Le donne, viste dalle donne, sono considerate spesso pettegole, false, traditrici e predatrici di mariti e fidanzati. Senza alcuna riflessione sul fatto che donne siamo pure noi, che invece ci riteniamo leali e dotate di tutte le qualità ritenute normalmente maschili.

Per assurdo, proprio quei principi di emancipazione che avevano spinto quelle prima di noi a creare gruppi di donne contro la supremazia maschile che divideva per imperare, hanno spinto molte a pensare che, raggiunta ormai la parità dei diritti, era preferibile comunque dissociarsi dalle altre, in quanto comunque non sembrava rappresentassero l'immagine che volevamo avere di noi stesse.

Da qui la divisione degli opposti, anzi delle opposte.
Le casalinghe contro le lavoratrici, le vergini contro le liberate (perdonate l'espressione, ma io non ne conosco una migliore), le mamme contro le senza bambini, le grasse contro le magre, le belle contro le brutte e da qui un'infinita, quanto ridicola, superficiale ed estremamente pericolosa lista di stereotipi.
Le donne, storicamente e socialmente, hanno sempre fatto gruppo, in passato soprattutto per obblighi familiari e organizzazione sociale che le costringevano a stare insieme volenti o nolenti. La realtà è che le donne hanno sempre dovuto contare sul reciproco appoggio e sostegno e che questi valori negli anni della grande liberazione sono stati riscoperti proprio per portare le donne a lottare insieme e a ricostruire quel gruppo che tanto si sarebbe voluto dividere.

La divisione è il rischio più grande che una donna possa correre. È una porta spalancata verso la violenza. Contro tutte e ognuna di noi.

Il minimo che ci può succedere, se divise, è che lasciamo il campo libero a chi ci invita ad essere sottomesse, malleabili. Idiote insomma. Ma con brio.

Personalmente soffro di episodi di personalità multipla e identità confusa.
Ho tre lavori, tutti da professionista del mio settore; mi considero una donna in carriera, che nel mio settore fa comunque ridere.
Faccio la mamma, più per propensione materna di mio marito che mia, e mi diverto a farla, considerando chi figli non ne fa una persona di tutto rispetto e forse molto più saggia di me.
Mi occupo di casa mia quanto basta per renderla un nido accogliente per noi e chi ci vuol bene, senza volerne a chi invece alla casa e alla famiglia si dedica a tempo pieno. Ognuno sceglie come rischiare il suo futuro.
Non credo nella purezza che non sia quella dell'animo. E anche lì ho dei seri dubbi.
E ho un numero spropositato di amiche.
Perché tutte, quelle del passato, quelle del futuro, quelle del presente, quelle che non ci sono più e quelle che non ci sono ancora, sono esseri complessi, meravigliosi, con cui ci si ama, ci si odia, si piange e si ride insieme, ci si confida, ci si aiuta.
Perché solo un'altra donna può capire me come donna, non solo come essere umano.
Di uomini meravigliosi ne conosciamo.
Ma solo le donne insieme possono riuscire a fare di questo mondo un posto dove uscire tranquille per strada.


martedì 3 febbraio 2015

Da un lavoro all'altro, come Tarzan sulle liane

Sono un'insegnante.

Questa affermazione ha dei significati strettamente legati al territorio in cui viene pronunciata.
Non tanto perché chi insegna può facilmente dover cambiare il paese in cui lavora, soprattutto ora, e quindi anche la lingua in cui si esprime quotidianamente, ma soprattutto perché il lavoro stesso dell'insegnante implica un adattamento alla realtà circostante che lo porta un po' ad assomigliare sempre più a un camaleonte.

Mi tocca tornare indietro nel tempo, a quando nel 2006, dopo due anni di fidanzamento (a distanza, part-time, schizofrenico e anche meravigliosamente pacifico, considerando che a causa del fuso orario ero sempre assopita quando finalmente potevamo collegarci su Skype) io e il mio colombiano abbiamo deciso di sposarci.

Non affronto le peripezie burocratiche che scaturiscono da un incontro italo-colombo-statunitense.

Dopo circa un mesetto di vacanze-campeggio in giro per la Corsica e le spiaggie sarde, ci siamo resi conto che bisognava pensare a dove avremmo costruito il nostro nido.

La mia isola non si è mostrata molto accogliente dal punto di vista lavorativo e chiaramente è toccato a me spiccare il volo verso il Nuovo Mondo.

Presa una meravigliosa aspettativa per motivi di famiglia, sono approdata sulla costa est, alla conquista delle scuole texane.

Dopo un paio di settimane seguivo già un percorso alternativo per avere accesso all'insegnamento nelle scuole texane.
Sborsati $300 per un paio di anni di impegno con un'agenzia formativa, dopo quattro mesi avevo già trovato lavoro per un distretto scolastico come insegnante bilingue, avevo un avvocato che si sarebbe occupato della burocrazia migratoria, ed ero diventata una maestra bilingue.

Detto così sembra semplice, in realtà almeno per l'aspetto burocratico, legato anche a movimenti e pertinenze abbastanza sospette, il percorso ha avuto anche i suoi ostacoli.

Venendo dalla scuola pubblica italiana, con vari anni di esperienza sia alle elementari che alle medie e nell'insegnamento agli adulti, con due concorsi alle spalle e vari corsi di aggiornamento, conseguire l'abilitazione (anzi, LE abilitazioni, ben 7!) negli Stati Uniti è stato decisamente facile.

Gli esami si preparavano nel tempo libero, un po' come da noi si fanno le parole crociate; una, due volte la settimana si frequentava il corso, e alla fine del primo anno sono stati fatti i corsi online.
Praticamente un gioco da bambini rispetto ai due anni di studio intenso di lingua, letteratura e metodologia che sono necessari per affrontare in maniera onesta i concorsi in patria.

Certo, anche in Italia di abilitazioni ne avevo comunque varie, ma la facilità di accesso all'insegnamento negli Stati Uniti non ha paragoni. (Il che è un vantaggio per chi vuole insegnare, ma anche una delle ragioni per cui secondo me molti mollano dopo pochi anni, perché, avendo sottovalutato il mestiere giudicandolo dal biglietto di ingresso, davanti a una classe affamata di sapere, uno che ne ha poco crolla...)

Primo anno da maestra bilingue
Mentre le mie colleghe in Italia si godevano ancora il sole sulle spiagge d'agosto, io a metà mese ero già al lavoro, in piena fase preparatoria, a seguire corsi di aggiornamento per otto ore al giorno per una settimana.
40 ore di aggiornamento.
E ancora non avevo visto una classe.
L'aula sì, quella non solo l'avevo vista, ma dopo le otto ore di aggiornamento dovevo anche andare ad adornarla didatticamente, stabilendo cosa avrei insegnato dove e come e qual era il posto di ogni libro e ogni oggetto che avrei usato durante l'anno.
Programmazione strutturale la chiamerei, o come usare pareti, angoli, banchi e lavagne perché tutto abbia un senso, un suo uso e una sua logica.
Considerando che in Italia la mia aula di inglese alle elementari era stata ricavata da un passaggio che metteva in comunicazione due parti dell'edificio scolastico e che quindi ci portava a dover praticare all'eccesso i saluti verso chi passava nel bel mezzo della lezione, e che alle medie le pareti erano normalmente occupate da varie cartine, mi sentivo in paradiso.
Avevo uno spazio mio, che finalmente poteva diventare uno strumento di insegnamento, non più solo quattro mura da cui fuggire.

Certo, le mura di casa mia di solito non le vedevo prima delle otto di sera.

Poi è cominciato l'anno scolastico. Più o meno come in Italia: due ore di programmazione settimanale, il solito lavoro di programmazione individuale dopo le lezioni.
Più due ore di corsi di recupero per gli alunni che ne avevano bisogno alle sette della mattina.
Più arrivare almeno mezz'ora prima delle lezioni (alle 6:30 martedì e giovedì, alle sette gli altri giorni).
Più i corsi di aggiornamento il sabato (che sennò non ti rinnovano l'abilitazione dopo cinque anni).

Insomma, una vita lavorativa intensa.

Senza contare le ore di studio che ti toccano quando sei laureata in lingue e devi insegnare scienze, matematica, studi sociali (americani, quindi sconosciuti) e preparare gli alunni a sostenere esami mai visti.

Poi sono passata al liceo a insegnare francese.

Il liceo: my cup of tea!
Indubbiamente meno studio a monte: almeno la materia, la conoscevo già!

Niente aula: il liceo con una popolazione di più di 3500 alunni non aveva spazi adeguati e mi toccava fare la floater (che avendo a che fare con il verbo galleggiare porta a riferimenti chiari, almeno per un'italiana) e spingere materiali e strumenti tecnologici su un carrello da un'aula all'altra. (In Italia tanto avrei dovuto comunque vagare fra i locali di un qualunque istituto, non accompagnata però né da materiali, né da tecnologia...)

Con il tempo (e il licenziamento di un numero notevole di insegnanti a causa di tagli al bilancio (che un po' ci sono, un po' vengono usati come scuse per una pulizia accademica quando di accademico l'insegnante aveva ben poco...), ho cominciato a insegnare anche italiano e poco a poco il programma di italiano è cresciuto: ora insegno felicemente a sei classi, di cui una di ben 44 studenti (li chiamo i 44 gatti e ogni tanto ci cantiamo anche la canzone...).

Grande successo di pubblico insomma.

Mi riposo di più che alle elementari?

Certo che no!
Adesso anziché dover fare i corsi di recupero alle sette di mattina, devo farli tutti i giorni all'ora di pranzo, quindi passo le lezioni del dopo pranzo a ruminare la mia insalata mentre spiego i pronomi o un tempo verbale.

Elegante come sempre, io.

E poi ci sono i concorsi vari, le associazioni studentesche da sponsorizzare, gli esami di stato a cui preparare gli alunni che sennò la scuola non prende soldi, gli scambi da organizzare per portare gli alunni in Italia quasi a costo zero (io ho insegnato, insegno e sempre insegnerò solo ed esclusivamente nella scuola pubblica, quindi offro opportunità il più possibile gratis o a costi che quasi tutti possano permettersi).

Il tempo libero?
Essere insegnanti porta indubbiamente il vantaggio del tempo libero.
È però il concetto del tempo libero che cambia.
In Italia nessuno poteva togliermi di andare in palestra, a fare una paseggiata con le amiche, di pomeriggio la pennichella del dopo Beautiful non me la toglieva nessuno. Il giorno libero potevo decidere come passarlo, magari a organizzare la casa, fare il bucato, oppure a leggere un libro (i blog per perdere tempo ancora non li conoscevo...) e poi arrivava anche il fine settimana!!!
Per non parlare dell'orario dei giorni lavorativi: con 18 ore di contratto c'erano anche le giornate che dormivo fino alle 9:30!!
Insomma, l'equivalente di un lavoro part-time...
Non confondiamoci, anche lo stipendio era da part-time.
Ma la creatività e l'amore per gli alunni veniva incontro alle bollette e ogni anno c'erano progetti in più a cui lavorare (sottopagati quando non gratis...).

Anche negli USA il tempo libero degli insegnanti è molto invidiato: le vacanze vanno dal 30 maggio fin ben al 10 agosto, 15 giorni a Natale (oh, sorry! Winter Break!!!), Venerdì Santo libero e una settimana di Spring Break. Che pure aggiungendoci il Martin Luther King Day non siamo nemmeno vicino alle vacanze italiane...
Sabato libero per tutti, il weekend diventa un'oasi di respiro a fine settimana.
Lo stipendio, lavorando 40 ore contrattuali la settimana, è il doppio.
E il lavoro pure.
E anche con lo stipendio al doppio la realtà è che la maggior parte degli insegnanti (non sposati con ingegneri chimici, medici o avvocati...) devono comunque arrotondare con altri lavori.
Io ne ho ben tre.
Liceo, università la sera e anche online una volta al mese di notte per una settimana.

Il vantaggio è che se qui vuoi arrotondare hai solo l'imbarazzo della scelta: mai rifiutate tante opportunità come da quando sto qui.

La valutazione
No, non degli alunni.
La mia.
Sì, perché una delle più grandi differenze fra USA e Italia come insegnanti è che qui, a te che tanto te la meni che stai dietro una cattedra, alla fine dell'anno ti fanno una pagella così!

Il mio si chiama TADS (Teacher Appraisal and Development System), quello del mio colombiano si chiama PDAS. Stessa roba.
Durante l'anno devi dimostrare più volte di essere un bravo insegnante, di avere rapporti cordiali e costruttivi con i colleghi e con i genitori, di aver aiutato fino allo sfinimento gli alunni prima di riciclarli nell'apposito contenitore, con strategie sempre diverse, metodi appropriati, creatività, comprensione e infinite possibilità di recupero; devi dimostrare di aver seguito infiniti corsi di aggiornamento e di aver adattato di conseguenza il tuo insegnamento.
Ma soprattutto: non te la devi fare addosso quando vengono e si siedono in classe ad osservare la tua performance.
Entrano di soppiatto, nemmeno salutano, si siedono in un angolino, guardano e scrivono, guardano e scrivono...
Mentre tu ti chiedi: ma che c'avrai da scrivere????
Quello che da scrivere aveva, ti viene poi comunicato per iscritto e può anche essere discusso in un regolare colloquio con il valutatore (sempre interno alla scuola). Non ti piace cosa ha scritto e/o detto? Chiedi un altro valutatore.

E se tutto va bene, piovono i complimenti a destra e a manca e tu finisci l'anno sentendoti una divinità dell'apprendimento.
Oppure no.

Insomma, a conti fatti insegnare qui, insegnare lì, i ragazzi sono sempre ragazzi.
Vogliono essere ascoltati, apprezzati, capiti e vogliono avere la possibilità di sbagliare senza che tu ti arrenda.

E perché un insegnante non si arrenda è necessario un sistema che valuti, apprezzi, sborsi i quattrini dovuti e offra strumenti e metodologie per farci andare avanti e stimolarci a imparare e aver ogni giorno una voglia nuova di insegnare.

sabato 24 gennaio 2015

Lucertole e calcio



Terza settimana di calcio per Luca e Matteo.
Stavolta mi sono portata una carriola di temi da correggere per vedere se fra un "Gooooooaaaal!!!!" e l'altro, far bere Luca, far bere Matteo, dare un bacio qui, consolare di là, magari riesco pure a restituire qualcosa agli alunni di tanto in tanto.
Il tempo ci ha aiutato tutti e con un po' di sole mi sono dilettata nella lettura dei diari di viaggio degli studenti che ho mandato per uno scambio in Italia.
Mentre leggevo ogni tanto facevo una pausa per ammirare i miei figli, non più bimbi ma già ometti, che rincorrevano il pallone e mi lanciavano occhiate nascoste, per vedere se li stavo osservando, se la mamma era orgogliosa di loro.

E io lo sono.

Quando con Juan eravamo tornati a Houston e avevamo comunicato la notizia che aspettavamo gemelli i commenti sono stati tanti.
La maggior parte erano scontati, di quelli che leggi sui libri per mamme di gemelli, double trouble, better you than me e chi più ne ha più ne metta.
Uno però me lo ricordo chiaramente: "Meglio così, con uno solo, una come te si sarebbe annoiata".
Questa frase ha immediatamente fatto cessare tutte le paure che potevo avere sul fatto di diventare, a quasi quarant'anni suonati, mamma di non uno ma due primi figli.
La stessa persona mi ha poi fatto notare che, visto che arrivavano due maschietti, sarei anche stata sollevata dal dover dar loro un modello da seguire, che invece in questo caso sarebbe toccato al papà.
Insomma, una win-win situation, non potevo perdere in nessun caso!!!

Il fatto è però che io sono vissuta per la maggior parte della mia vita in un mondo di donne, mamme, nonne, zie, amiche del cuore, e mi ritrovavo assolutamente impreparata all'arrivo di non uno ma ben due nuovi uomini nella mia vita.

Come avrei fatto?

Non dovevo diventare un modello, un esempio da seguire, ma mi toccava ben pure fare bene la parte di mamma e di donna, per insegnare loro la parte migliore del sesso femminile, per insegnargli come averci a che fare, con rispetto e onore...
Io proprio nei panni di fata del focolare, esempio di grazia e femminilità non mi ci sono mai vista.

E poi come avrei fatto con loro?

In cosa sono diversi i maschietti?

Lo sono?

O bisogna trattarli solo come bambini, senza curarsi della loro mascolinità, aspettando che quella se e quando si sviluppi da sola?

Una cosa la sapevo: la pipì doveva insegnargliela a fare il papà.

O almeno speravo.

Quando poi sono arrivati ho capito subito che avevo trovato non uno, ma ben due principi azzurri: gli occhi innamorati di un neonato (due!!!) che ti guardano, come se fossi davvero la fata turchina di Pinocchio, ti fa nascere come un'aura rilucente attorno, BELLISSIMA!!!
Diventi una specie di divinità indiana.

Non so se sarebbe successo anche con una bambina (o due!!!), forse sì.
Forse si sarebbe instaurata un'innata complicità fra donne.
Forse avremmo fatto le fate tutte e tre e avremmo conquistato il mondo!

Non so.

Ma posso giurare sull'effetto principe azzurro.

Poi è arrivato l'asilo, hanno cominciato a mostrare di amare trapani, bambole, scope, cucine e costruzioni in egual misura.
Così come i vari colori, senza eccezione di rosa e di blu.

I primi segni di differenziazione sono arrivati verso i tre anni, quando al mio arrivo alla fine della giornata hanno cominciato a portarmi, orgogliosi, sporchi di fango, con la terra ben ben infilata sotto le unghie, i loro meravigliosi VERMI grigi, che con i loro amici cercavano per ore. Poi sono arrivati i ragni, gli scarafaggi, l'amore per il moccio e le decorazioni artistiche che si potevano fare sul muro e sui pantaloni.
La mia macchina ha cominciato a essere popolata di esseri di ogni tipo, che seccano al sole mentre io lavoro e che spero sempre di non ritrovare quando do un passaggio a qualcuno.

Ho provato a proporre la danza classica: Luca mi ha fatto notare che solo le bambine la fanno.
Una lama dritta dentro al cuore.

Ma come?
Dov'è finito il mio ballerino che fino ai tre anni bastava gli dicessi "Balla!" e zompettava per ore con salti e piroette???
Per bambine???
E io che contavo su una sicura carriera nel mondo del balletto...

Ora quando andiamo ai compleanni per bambine e le vedo, che giocano alle principessine, mentre i miei cavalieri senza paura si rincorrono su e giù per le scale, si arrampicano sugli alberi, si sfidano a colpi di spade, bastoni o gambe di tavolo, guardo i volti attoniti, smarriti, terrorizzati delle mamme in rosa.
A me in fondo non dispiace giocare a draghi e cavalieri impavidi.
Le principesse mi sono sempre state un po' sulle palle, diciamolo.
Anche oggi avrò sicuramente deluso un'altra mamma, regalando alla figlia un libro su una bambina che voleva fare l'ingegnere.

Eccolo qui

Il nostro orto-cortile è infestato da piccole lucertole preistoriche, che se vengono disturbate sparano fuori un bavaglino arancione sperando di spaventarci.

Ma non ci spaventano.

Anzi.

Le prendiamo per la coda e le osserviamo, immaginando che siano grandi draghi sputafuoco,

Chissà, magari amano essere ammirate dai miei due pirati coraggiosi, anche perché si sentiranno sole in un orto con solo tre pomodori.

Forse i miei bambini un giorno porteranno a casa una principessa e spero che non sarà vestita di rosa, o che se lo sarà, avrà anche voglia di giocare con i treni, o con le costruzioni, o magari a rincorrere i draghi dell'orto.

Insomma, una principessa un po' come me.



mercoledì 21 gennaio 2015

La sindrome della maestrina dalla penna rossa

Essere un insegnante non è una bella cosa.

Cioè, è un mestiere meraviglioso, si cambiano delle vite, si danno opportunità, si cambia il mondo...

Si è esposti però a molte malattie contagiose: l'influenza, il raffreddore, virus di tutti i tipi.

Siamo d'altronde circondati da piccoli e giovani esseri umani portatori di ogni tipo di virus o batteri esistenti sulla faccia della Terra. 

Ma il morbo peggiore che si possa contrarre a scuola è uno: 
la sindrome 
della maestrina 
dalla penna rossa!!

Terribilmente contagiosa, presenta i seguenti sintomi:
1. eccessiva attività di udito e vista, che consentono di rilevare ogni pur minima anomalia nella produzione del linguaggio altrui, scritta o orale (congiuntivi inesatti o inesistenti, uso scorretto delle preposizioni, pronomi impazziti...)
2. sensazione di irritabilità e scarso autocontrollo che spingono il paziente a far notare al malcapitato produttore di irregolari e scorrette strutture linguistiche l'imperdonabile errore.
3. paralisi dei muscoli maxillo facciali che portano le sopracciglia a contrarsi spasmodicamente e le palpebre a sbattere ripetutamente ogni qualvolta l'errore venga ripetuto.
4. Nella fase più acuta si sviluppa inoltre una totale incapacità sensoriale alla rilevazione dei propri errori, in quanto il paziente soffre anche di un'ulteriore patologia nota come "mania di superiorità".

Possibile cura:
Esporre il paziente a una terapia d'urto conosciuta come "Guarda la RAI di pomeriggio", ovvero posizionare l'individuo in questione di fronte a uno schermo che trasmetta i vari talk show caratterizzati da loquacità purulenta e ammorbante. In caso di residenza all'estero, sostituire all'elemento RAI un qualsiasi canale tv. 
Trattasi di terapia intensiva e molto pericolosa, con dosi da non somministrarsi per più di due pomeriggi a settimana.

Altra cura: la registrazione delle elocubrazioni del paziente, con qualsiasi mezzo a disposizione: registratore, cattura immagini per elucubrazioni su Facebook, blog, Twitter o qualsiasi mezzo scritto il paziente usi per dimostrare la propria superiorità. Esporre poi il paziente al prodotto finale.

A volte di fronte alle proprie produzioni linguistiche si verifica un bagno di realtà (reality check) che può guarire quasi istantaneamente il paziente.

Ma soprattutto.
Facciamolo ridere questo paziente!!!

L'insegnante colpito da sindrome della maestrina dalla penna rossa è di solito coscienzioso, dedica ore ed ore a costruire il futuro dei propri alunni, prima, dopo e durante il normale orario scolastico, ed è realmente esposto a batteri preposizionali, virus congiuntivi, idee distorte e ormoni adolescenziali impazziti.

Per una guarigione soft alternativa sono utili prese per il naso, vignette, soprattutto se satiriche, caricature e musichette canzonatorie.

Non dovessero funzionare, 
anche 
un bel 
VAFFANCULO
sarà 
d'uòpo.




mercoledì 14 gennaio 2015

Colombia per bambini. Istruzioni per l'uso.

Colombia is the most dangerous place on Earth.

A queste parole il mio orgoglio colombiano mi ha fatto quasi aggredire fisicamente il cretino che le aveva pronunciate.
Non so quale orgoglio colombiano, visto che nonostante tre quarti della mia famiglia siano colombiani, a me proprio neanche si parla di darmi la cittadinanza.

La frase mi è sembrata comunque pericolosamente idiota.

Non perché io sia cieca e non veda i travagli di un paese che cerca di uscire da decenni di violenza e guerra civile.
Ma perché una frase così alimenta la violenza, alimentando la paura.
Ora, che un idiota che in Colombia c'è stato e che vuole tornare a casa e avere successo con le donzelle a basso contenuto di neuroni possa pronunciarla, lo capisco.
Ma lo capisco solo se poi entra in funzione un qualche meccanismo di autodistruzione esseri inutili.
Un po' come per il Messico, mi sembra che avere paura di andarci sia come far vincere chi vuole il paese in preda al terrorismo e alla violenza.
Bisogna andarci invece, tornare a casa, esorcizzare la paura, farsi sentire presenti.

E così noi, nel paese più pericoloso del mondo, non solo ci andiamo, ma ci andiamo con i bambini.
La famiglia di Juan, che vive dietro a un cancello che protegge la porta di casa, ci definisce callejeros, cioè vagabondi.
In effetti a casa ci stiamo poco. Ci si sveglia, si fa colazione, e via per la città.
E pure con i mezzi pubblici.
Luca e Matteo nei nostri viaggi hanno conosciuto mezzi di trasporto di tutti i tipi: taxi, autobus, treno, collettivi, navi, moto taxi, metropolitana, ci manca solo l'elicottero.

Ci piace che si mescolino fra la gente, a spintoni, in equilibrio precario, per provare un senso di appartenenza a un pianeta popolatissimo, dove ti pestano i piedi, ti cedono il posto, dove a volte gli autisti partono lasciandoti appeso solo a un filo di speranza, fra il tornichetto e l'asfalto che brucia.
Dove le mamme leggono ai bambini, per impiegare bene il tempo degli spostamenti, li stringono facendosi culle, li pettinano, li smacchiano o solo li guardano attraverso il loro futuro.
Luca e Matteo saltano, si appendono, volano fra un mezzo e l'altro, si sentono grandi ma mi stringono forte la mano, perché l'ebbrezza dell'avventura non diventi perdita e terrore.
Alcuni mezzi entusiasmano più di altri, come il moto taxi Ape Car che infiamma Matteo di passioni automobilistiche.

E noi?

In realtà siamo tutti ottimi viaggiatori, poco ci impaurisce la fatica di un viaggio con pargoli e bagagli. Siamo una famiglia di zingari.

A Medellín i miei bambini hanno imparato ad amare le statue, i graffiti, l'arte metropolitana su cui ti puoi arrampicare, i volti famosi che puoi fissare senza abbassare il capo e le installazioni che insegnano la storia del paese, che è anche parte di loro.

La notte illumina la città di colori che trasformano anche loro, che li ammirano a bocca aperta.
Il grande miracolo dell'elettricità.
Il sole invece fa spuntare le farfalle da tutte le foglie del Giardino Botanico, e le iguane e le tartarughe escono quasi a comando, a mostrare la loro imponenza. Il cielo appartiene alle scimmie, e più in alto agli uccelli, che lo trasformano di suoni e colori.

Troppo romantico? Bisogna ammettere che la mano quando giriamo per la città forse un po' più del solito gliela stringo.
La paura che qualcosa possa succedere c'è.

Ma non ci facciamo dominare.

Oggi quasi ci schiacciavano Luca in Metro, per colpa nostra che tornavamo all'ora di punta, con la folla da stadio alla fermata...
Anche i nostri amici sono a favore della libertà e del riprendersi gli spazi per non far vincere la violenza.
Però pure loro gli stringono la mano e li tengono ben stretti.

Sono felice di sapere che da grandi i miei bambini sapranno di aver giocato sulle statue di Botero, di essere stati in moto taxi e di non aver avuto paura nel loro paese.


Assolutamente da visitare con bambini:
Plaza Botero
Parque de los pies descalzos, e tutti i parchi della città in generale, soprattutto quando hanno in corso manifestazioni ed eventi.
Jardín botánico e Mariposario
Reposteria Astor, una meravigliosa pasticceria che offer cioccolato e dolci tipici a forma di animali coloratissimi.
Museo de Antioquia, dedicato a Botero, con una bellissima sala dove i bambini possono giocare ed entrare nell'opera d'arte Pedrito.
Parque Explora, un parco scientifico e interattivo

Festival da non perdere:
Festival Internazionale della poesia
Feria de las Flores

lunedì 12 gennaio 2015

Non chiaccherare. Non disegnare.

A mio nonno ai tempi del fascismo pare venisse consigliato di non andare in piazza durante le adunate. Non perché fosse un partigiano impegnato nella lotta al fascismo, nè un grande pensatore, filosofo o politico, ma solo perché zitto non ci stava e se sentiva delle stronzate opinioni diverse dalle sue gli sembrava giusto, in maniera più o meno (molto meno) elegante farlo notare ai presenti, con toni più (molto più) o meno agitati.
Quindi nonno stava a casa. Zitto no, non ci stava, ma fra le pareti domestiche si poteva essere ribelli ed esprimere le proprie idee liberamente, che al massimo non ti stava ad ascoltare nessuno.

A me da piccola leggevano Gian Burrasca, come esempio di difensore della libertà di espressione che in un modo o nell'altro si mette sempre nei guai.

Mia madre diceva che se fosse nata in un passato storicamente non ben definito, sarebbe stata sicuramente punita dal Sistema per non saper tenere la bocca chiusa. Degna figlia di suo padre.

Una famiglia di chiaccheroni.

Pochi anni fa nella mia città un gruppo di chiaccheroni è stato accusato di terrorismo, non perché fossero state trovate reali prove concrete contro di loro, ma solo perché avevano fatto affermazioni minacciose, o anche non minacciose, semplicemente considerate pericolose.

Faceva bene chi suggeriva a mio nonno di stare a casa.

Ricordo che anche io quando ero giovane e avevo occupato un asilo insieme a un gruppo di rivoltosi umanoidi, avevo sentito qualcuno dirci di fare attenzione, che avevamo i telefoni sotto controllo, che era pericoloso.
Non capivo bene cosa ci potesse essere di pericoloso a occupare un asilo. Al massimo la stagione, visto che noi, anziché fare la primavera di Praga avevamo deciso di fare l'autunno-inverno di Monserrato, e faceva un freddo boia a dormire in una casa senza porte o finestre solo col sacco a pelo vecchio. Pericoloso o no mi era piaciuto moltissimo. Avevo anche imparato a suonare Hey Joe alla chitarra. L'unico evento artistico della mia vita.
Mi vergognavo un po', perché io all'asilo poco ci facevo: gli altri occupanti erano tutti musicisti, disegnatori: avevano fatto dei murales che io, che non avevo fatto niente, se non eventualmente rifornire il gruppo di tè caldo la sera, non ero degna neanche di guardare.
Non potevo che ammirare i rivoluzionari che mi avevano permesso di aggiungermi a loro.
E collaboravo chiaccherando, visto che a me, quanto a chiacchere, in pochi mi battono.
Eredità di famiglia.

Quell'occupazione aveva dato il via a tutta una serie di altre occupazioni, principalmente all'università, dove, devo ammetterlo, non ho fatto che rimpiangere l'asilo, freddo, sporco, ma pieno di creatività e di gente onesta che rivendicava uno spazio proprio per creare. Occupare l'università era più comodo, si dormiva nell'Aula Magna sopra la moquette, al calduccio. Nessuno mi ha insegnato una nuova canzone però, e quei rivoluzionari mi si erano pure rubati le meccaniche della chitarra. È sicuramente quello che ha stroncato la mia carriera musicale. Anche lì si rivendicava uno spazio. Politico. O meglio direi un posto in politica. Giovani rampolli della bella società rivoluzionaria. Io ci stavo anche peggio che all'asilo. Assolutamente fuori posto.
Neanche a dirlo, lì non disegnava nessuno.

Ma il vero atto rivoluzionario della mia vita è stato quando ho deciso di scoprire se quella gentaglia che tanto casino aveva fatto a Seattle era veramente gentaglia. Alla tv, nonostante quello che dicevano i giornalisti, a me sembravano proprio persone perbene, che chiedevano soltanto di essere democraticamente presenti quando i Signori dell'Universo si riunivano a decidere chi vinceva a Risiko. Mi sembrava molto lecito, anzi addirittura encomiabile, che qualcuno girasse il mondo solo per dimostrare la propria opinione e guidare i Signori verso delle decisioni giuste e condivisibili per tutti.
La tv invece li faceva sembrare dei mostri. Ma come può essere mostro chi vuole un mondo migliore?
Allora, nel 2001 mi sono imbarcata per Genova per unirmi a loro, con una banda di chiaccheroni meravigliosi, alcuni di soli 15 anni e con una cultura e delle idee che io non avevo mai sentito. Gente davvero rivoluzionaria. Fra di loro c'erano anche alcuni che molto rivoluzionari non erano, diciamolo, ma tanto, una volta scesi dalla nave, quelli si sono visti ben poco, che l'aria era tesa e i sacchi a pelo scomodi.
Come è finita quella meravigliosa avventura si sa.
Anche a noi, come a mio nonno, la polizia ha detto che dovevamo starcene a casa. Anche se non eravamo pericolosi. Solo per il fatto di parlare troppo.

Ora il fatto è che da quando sono arrivati Luca e Matteo il mio sogno è andare a una manifestazione con loro, insegnargli a conquistare la strada, a parlare con la gente, a imparare da uno sconosciuto a suonare Hey Joe. Luca poi, mi ha detto che vuole fare l'artista. Non solo di disegni, anche di statue. Sarei così orgogliosa di vedere un giorno dei murales rivoluzionari fatti da lui.

Ma la verità è che io a una manifestazione non ce li ho ancora portati.
Perché ho paura.
Perché i grilletti sono veloci e i gas bruciano la pelle.
Perché dovunque ti volti chi vuole limitare la tua libertà ti minaccia.
Perché quando si uccide, a una manifestazione o sul posto di lavoro, si creano cadaveri da appendere sulla pubblica piazza, a monito.

Io in piazza a Parigi non ci sarei stata.
Con tutta quella gentaglia in prima fila, che censura la gente alle manifestazioni con la violenza, fratelli di chi uccide per punire dei disegni o delle parole.
Perché li hanno accettati? La strada è della gente comune, non dei potenti.
Sono andati a fare un balletto macabro sulle tombe di chi non li ha mai rispettati.

Nemmeno voglio che i miei figli diventino due chiaccheroni da salotto, o che Luca disegni per i suoi amici, nella sua cameretta.
Devono imparare a pensare, devono crescere liberi, Gli comprerò più colori, gli insegnerò ad amare la gente e la strada.

E quando sarà ora ci andremo insieme alle manifestazioni e io avrò imparato a farmi coraggio per loro.

venerdì 2 gennaio 2015

Supermamme contro il Mostro Nero della notte

In questi giorni mi sveglio e non voglio tirare su di nuovo le coperte.
Di pomeriggio ho voglia di guardare la tv, scrivere, leggere, sorridere.

Chiaramente è necessaria una seria riflessione e analisi dei fatti.
Il caso infatti è abbastanza raro.

Anche le mie migliori amiche  si ritrovano spesso nella stessa barca. Che piano. Piano. Affonda.

Le mie interazioni più intense su Facebook sono con amiche che si lamentano della stessa cosa: l'insonnia.

Una pubblica che non dorme, l'altra ci si aggiunge, poi arrivo io (causa il fuso orario).

Insomma, siamo stanche, abbiamo le occhiaie che sembrano l'oceano profondo dei mari del sud, e delle borse sotto gli occhi in cui potremmo mettere tutte le memorie presenti, passate e future di varie generazioni.

Saranno le preoccupazioni.

No.
Preoccupazioni non ne abbiamo. Avremo il mutuo, le bollette, due figli, un marito, una casa da mandare avanti da un fine settimana all'altro, mille lavori che ci riempiono le ore e la mente. Ma preoccupazioni davvero no. In fondo abbiamo un lavoro, di solito quello scelto da noi, che ci affatica ma ci gratifica, una famiglia che adoriamo, dei mariti da sballottare un po' e amare, amiche con cui condividere gli alti e bassi della vita, anche a chilometri e chilometri di distanza.

Non ci manca niente.

Ma allora perché ci infuriamo, perdiamo la pazienza e soprattutto il sonno?
Saremo dei mostri?
Le famose donne insoddisfatte delle riviste per casalinghe?
Le mamme iperattive che vogliono tutto, soprattutto la perfezione e perdono le staffe se i loro progetti mostrano una falla?

Analisi.

Mi sveglio tutte le mattine alle 6.
Vesto i bambini.
Mi vesto io.
Colazione.
Dai, fai colazione.
Su, mangia che siamo in ritardo.
MangiAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!!
Scarpe.
Per uno.
Per due.
Per me.
Giacca uno.
Giacca due.
Giacca me.
Asilo pre-scuola.
Fuori uno.
Zainetto uno.
Fuori due.
Zainetto due.
Ciao mamma arriva presto uno.
Ciao mamma arriva presto due.
Bacio uno.
Bacio due.
Ri-bacio uno per evitare crisi di abbandono.
Macchina.
Autostrada.
Lezione uno.
Due.
Tre.
Pranzo.
Mille studenti in classe anche a pranzo.
Niente pranzo.
Lezione quattro.
Cinque.
Sei.
Finito. Respira. Pranzo. (Merenda?)
Autostrada.
Asilo.
Bacio uno.
Bacio due.
Corri a casa.
Cena.
Quel cartone mi sembra violento.
No, mamma non è violenzo.
Dalla cucina sembra di sì.
CambialOOOOOOOOOOOOO!!!
Cena.
Bagno.
Libro.
No, vogliamo il film.
No, libro.
Ho detto librooooooooooo!!!!
Nanna per uno.
Nanna complessa per due: abbracciami.
Ti sto abbracciando.
No, più tight.
Nanna due.
Il marito guarda la tv...
Magari scendo anche io...
Sì, dai ora scendo...zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz...

Fin lì tutto perfetto.
Poi verso le due, appuntamento su Facebook con le insonni.

Non so, ma io mamme insonni casalinghe non ne ho ancora incontrato.
Fare la mamma e lavorare non è semplice.
E quella di cui sopra è una giornata modello 1 - semplice.
Poi ci sono i giorni che i lavori sono due e si torna alle 8:30, per trovare il marito in versione drago-ora-o-li-strozzo-o-me-li-mangio perché il giro asilo-cena-nanna è toccato a lui.

Daltronde, cosa fare?
Scegliamo di lavorare per condividere le responsabilità, per realizzarci ed essere "una" non la metà di qualcuno, per dare un esempio di dignità e indipendenza ai nostri figli, per offrire loro la possibilità  di viaggiare, di avere una casa, di avere un futuro.
La mia è una casa fondata sul lavoro.
Che mi tolga la pace e il sonno non importa.
Io non sono negativa. Sono stanca, cari signori belli.

Bisogna ridimensionare, rivedere le priorità, trovare il tempo della felicità.
Ecco un buon proposito per il nuovo anno.

Il lavoro però resta lì, per mostrare ai miei piccoli che la mamma è stanca, ma perché ha un suo ruolo nella società e perché vuole poter dare loro tutto quello che a loro serve.

Poi arrivano le vacanze, il sole splende anche se fuori piove, ci si rilassa, viene voglia di fare tante cose, di sorridere, di ballare e cantare con i bambini.
Fortunatamente ho scelto un lavoro che di vacanze ne porta molte.
Il sole splende spesso.
E torna il sonno.

Fino a lunedì.
Ma il sole splenderà lo stesso, troverò le mie amiche insonni in un'altra dimensione e ci faremo compagnia.

(Ps= niente di male ad essere casalinghe, se una vuole farlo, se  è soddisfatta, se è una scelta, se nessuno ne paga le conseguenze. Io sarei stata una casalinga molto soddisfatta, Avrei dovuto abbandonare molti sogni. Ho solo deciso di non farlo.)

giovedì 1 gennaio 2015

Ma io dove vivo? Identità e affini

Nel periodo delle feste la nostalgia si fa sentire e viene voglia di tornare a casa.

Da poco su Facebook ho avuto uno scambio di idee con un'amica.
Ho postato (scusate):

- Seriously homesick.
Risposta (o domanda, vedete voi):
- Where are you?
- At home.
- Which home are you missing then? Or are you sick of being home??

Il concetto di casa è molto variabile, multiplo, sconcertante, confortevole e confortante.
Secondo Paul Young bastava poterci poggiare il cappello per chiamarla tale.

Io cos'è non lo so esattamente.
So che a volte vorrei andarci, mi ci vorrei identificare, vorrei avere la sensazione di esserci.

Uno dei pochi momenti in cui mi sento totalmente a casa è dopo un viaggio. Per me è la valigia che bisogna poggiare, non il cappello. Forse perché il cappello non lo porto.

Disfare la valigia mi dà la sensazione di essere arrivata. Por fin! Giunta alla meta agognata, al luogo dove finalmente posso riposare dopo un periodo di instabilità, tempeste, aerei, navi, treni.
Sensazione che provo a Houston dopo l'estate, in Sardegna all'arrivo da Houston, indistintamente.

Dovunque trovo quiete dopo la tempesta.

La sensazione della casa la provo anche però quando vedo un panorama di Mosca, del Cheshire, di Parigi, di Madrid, se sento una musica conosciuta, una lingua che capisco.

Anche Medellin è casa, non tanto per esserci vissuta a lungo, ma perché ha dato origine, in un modo o nell'altro, agli uomini più importanti della mia vita.

La casa è uno stato mentale.

Quando infatti un luogo non mi sembra casa, basta che un pezzo di un'altra casa arrivi a trovarmi, amici, un pacco, una cartolina, e immediatamente la non casa si ritrasforma in casa.

E per i miei figli?

Fondamentale ora far sì che identifichino la LORO casa, con la MIA casa, perché ça va sans dire che loro sono parte integrante di qualsiasi valigia da posare a CASA.

Strazianti alcuni viaggi recenti, in cui si arrivava a Medellin o a Sassari, stanchi e felici noi, scocciatissimi, spaventati e delusi loro...
Luca passa i primi giorni a odiare qualcosa: la casa piccola a Sassari, lo spagnolo a Medellin.
Matteo vuole direttamente tornare a casa. E allora via, si torna a casa a piedi, si fa il giro dell'isolato alle 2 del mattino, per annusare la zona, trovare qualcosa che ci piace, rilassarci e decider che magari è meglio restare, per avventurarci anche il giorno dopo nella nuova giungla urbana...

La via d'uscita si trova nell'incontro con le persone, quando i bambini si incontrano, ricevono abbracci, biscotti e sorrisi.

E zii.

Da buona sarda insegno loro che gli adulti amici sono tutti zii e zie. Questa famiglia allargata a loro piace molto, ne chiedono una costante conferma, li fa sentire a casa.

Il rientro a Houston è sempre una gran festa. Luca dice che le persone non devono lasciare il loro country. Che i suoi amici sono a Houston, come la sua scuola, i suoi vicini. Anche se abbiamo casa in tre posti diversi, la loro identità per ora è evidente. Non è la nostra. Non solo almeno.

Devo godermi gli anni in cui ancora la casa migliore sarà fra le braccia della mamma (e la mia abbracciata a loro due!).

Che il 2015 ci porti tante valigie, piene di amici, case e biscotti!

lunedì 29 dicembre 2014

Facebook e il miracolo delle famiglie Mulino Bianco

A volte per vedere come va la mia vita mi collego su Facebook.

La consolazione arriva istantanea: va tutto bene, guarda come sono felice!

Diciamolo, sono chiaramente Facebook-internet-comunicazione immediata-selfie dipendente.
Sono così dipendente che anche i miei bambini ormai, qualsiasi cosa facciano, se ci fa ridere, se ci piace, mi dicono subito: "Fai una foto?".

E subito finisce su Facebook.

Alcuni vedranno sicuramente qualche terribile anatema minacciare la mia famiglia per tanta esposizione mediatica, rischi mortali di bambini visti da tutti, case riconoscibili, luoghi rintracciabili. 

Altri si annoieranno a morte chiedendosi se non ho proprio nient'altro da fare che mostrare "Luca e Matteo che fanno colazione", "la mamma che mette la crema antirughe", "quel raggio di sole che sul ciuffetto fuoripostodiMatteorilucepropriocomeunraggiodisole"...

Altri ancora troveranno nauseante questa continua esposizione di amore, felicità e armonia.
(Magari un giretto di medicina dell'occhio in fondo me la dovrei far fare, così, anche solo per scaramanzia...)

Io invece la trovo terapeutica.

Come quando c'è una tempesta coniugale e Luca mi porta una foto di noi tutti insieme e mi dice: "Guarda come siamo felici qui!".

E ha proprio ragione.

Facebook è un po' come la vecchia scatola di latta in cui tenevamo le foto, le lettere di chi ci voleva bene, la carta di quel regalo speciale che ci aveva fatto tanto felici, un fiore secco di cui ricordiamo ancora il colore vivace e il profumo intenso di quando era pieno di vita.

Ma ha il vantaggio dei fermenti lattici: è vivo!

Una foto va online, subito arriva un Mi piace, un commento, una faccina felice.
Arriva dall'altro lato del mondo, da un cuore che batte con il mio anche se ad orari diversi.

È ovvio che sia irritante tanta felicità, che non sia reale. Ma è un modo per far durare più a lungo quel calduccio che abbiamo provato nel cuore ("Tristeza no ten fin, felicidade si..."), per riprovarlo ogni volta che torniamo online e che ancora quelle parole sono lì, come quel sorriso, il volo del mio bambino immortalato per sempre in un momento di estrema felicità.

Così ci si consola dal freddo dell'inverno e ci si protegge dal freddo nel cuore, quando si è lontani e non si possono vincere le distanze se non col teletrasporto nei profili di chi amiamo.


giovedì 3 aprile 2014

Latte nero

Elif Shafak aveva alcune miniature di troppo nel suo harem interiore, che le parlavano di come gestire, o non, la sua maternità e la sua vita.
Fra le tante credo che Miss Ego Ambizione sia proprio quella che mi è rimasta più antipatica: così negativa, così ansiogena.

Probabilmente la sviluppiamo tutte, prima o poi, una nostra Miss Ego.

La mia è un mostro.

Quando salta fuori è orripilante, con tentacoli orrendi e una testa da Medusa, occhi indemoniati che chiedono vendetta.
O almeno un po' di silenzio, un po' di riposo, un breve ma efficace respiro di sollievo.

E se questo non arriva, allora arriva Lei.
Grida.
Magari tira pure uno sculaccione.
Magari due.
Allontana i bambini.
Li spaventa.
Mi spaventa.

Tutto il lavoro, la cura, i gesti compiuti per creare un nido sicuro, caldo e aperto al mondo per i miei bambini, tutto svanisce.
Pochi secondi che possono distruggere giorni, mesi di amore incondizionato.

La mia Miss Ego è felice quando non dormo.
Sa che avrà la meglio.

Luca è l'unico che può vestirsi da coraggioso cavaliere impavido e affrontarla.
Mi dice di non urlare.
Mi abbraccia e sussurra "It's ok."

Il mostro se ne va, sconfitto, ritira i tentacoli e sparisce.
Il momento di riposo, il respiro di sollievo arrivano e mi riportano in me.

Fino a che il vaso non sarà nuovamente colmo.

Ma fino ad allora i miei piccoli e io ci rifugiamo nel nido, a farci le coccole e a osservare il mondo che scorre sotto di noi.

giovedì 27 marzo 2014

Ma tu, quanto bilingue sei?

Juan e io abbiamo sempre saputo che uno degli aspetti magici della nostra unione era che se avessimo avuto dei bambini avrebbero potuto imparare non una, non due, ma ben tre lingue così, solo per il fatto di essere figli nostri.
Ci sembrava naturale: io parlerò italiano, tu parlerai spagnolo e Houston insegnerà loro l'inglese.
Fatto.
Organizzato.
Perfetto.

Io, che sono un'avida lettrice, avevo letto molto, un po' qua e un po' là.
Sapevo cosa fare.
Parli tanto, offri materiali autentici, libri, cartoni animati, canzoncine, film, filastrocche e chi più ne ha più ne metta. Un'estate in Colombia, una in Italia per coltivare amichetti con cui parlare, affetti qui e affetti lì, tutti a stimolare e a comunicare con i nostri piccoli virgulti in crescita.
In italiano io, in spagnolo Juan, Houston in inglese.

Et voilà! I bimbi trilingui sono serviti, così, su un piatto d'argento, senza nemmeno Rosetta Stone.

Certo, non avevamo considerato che avremmo potuto avere gemelli.
Nemmeno avrei mai immaginato di avere due maschietti.
Insomma, famiglia trilingue + gemelli + maschietti= lo sfacelo.

Quando prima dell'anno Matteo faceva i suoi gorgheggi, mi beavo all'idea che presto i miei piccini avrebbero riempito le stanze delle loro chiacchere allegre.
Al primo "mamma" mi scioglievo già in un brodo di giuggiole.
Eppure il tempo passava, le bambine che incontravamo al parco già spettegolavano allegramente con frasi complete, e i miei prodi erano ancora lì a biascicare versi incomprensibili.
Mai stata meno felice di constatare la superiorità femminile...
Mi proponevo comunque di aspettare pazientemente i progressi linguistici, senza ansie da prestazione.

E lì è intervenuto Luca, con la sua mente creativa.
Anziché imparare parole universalmente riconosciute come appartenenti ad almeno una delle tre lingue parlate in famiglia (che noia...) ha cominciato a creare un linguaggio tutto suo, coerente al punto che a volte per farci capire usavamo noi i suoi termini, anziché esigere che si adattasse lui a noi.
Matteo chiaramente, affascinato com'era dall'estro del fratellino, ha abbandonato i suoi studi linguistici ufficiali per adeguarsi totalmente alle invenzioni di Luca.

E parliamo di quando i genitori all'asilo commentavano la mia frustrazione con frasi solidali tipo "Magari parlerebbero di più se parlassero solo inglese/ dicono gli studi che i bambini bilingui non hanno mai un ampio vocabolario" e chicche del genere...

Rosetta Stone si vendicava su di me per il boicottaggio fatto in passato.

Ora però uno dei due è un chiaccherone poliglotta, che comincia a parlare al risveglio e smette di inventare storie di draghi e castelli solo a palpebre chiuse la notte.
L'altro ancora fatica, preferisce l'inglese, più semplice e conciso.

Ma io so che i miei piccolini, con tanta pazienza, con tanti libri e con tanti amici con cui chiaccherare, stupiranno presto (e in ben tre lingue!) tutti gli scettici monolingui con crisi di superiorità.